Grace di Monaco

Nel 1962 il Principato di Monaco subisce la politica fiscale di De Gaulle, il quale, minaccia l'embargo. Su questo sfondo si svolge la storia privata e pubblica della Principessa Grace, invitata dal Alfred Hitchcock a prendere parte nel suo nuovo film, Marnie.
    Diretto da: Olivier Dahan
    Genere: drammatico
    Durata: 103'
    Con: Nicole Kidman, Tim Roth
    Paese: FRA, USA
    Anno: 2014
3.7

Molto meno peggio delle aspettative, a dir la verità. Il secondo biopic di Olivier Dahan dopo La Vie en Rose (2007), Grace di Monaco, risponde alla esigenze di spettacolo del pubblico, coadiuvando la funzione emozionale con una ricostruzione esaustiva del contesto storico. Nel 1962 il Principato di Monaco è minacciato dalla rigida (ma del tutto logica) politica fiscale di De Gaulle e arriva a rischiare un embargo. La Principessa Grace è combattuta tra l’improbabile ma agognato ritorno sulle scene con il ruolo principale datole da Hitchcock per Marnie (che poi verrà preso dalla legnosa Tippi Hadren), e le regole del protocollo sociale impostegli dal suo ruolo nel Principato.

Tutto il film di Oliver Dahan, così come la performance di Nicole Kidman, osservano un ruolo istituzionale e diligente, per tutta la durata del film si osservano le grandi manovre di Palazzo, le noiose cerimonie di Corte, con un’impostazione di tono regale di cui non ci si deve minimamente vergognare.
D’altronde i tempi che corrono sono quelli del didascalismo televisivo, in pochi sono ancora intenzionati a far parlare le immagini, nel cinema di oggi, senza spiegare la trama per filo e per segno, di conseguenza, lo spettatore o sta immediatamente al gioco o si annoia. E’ così che in Grace di Monaco ogni tassello del sontuoso quadro viene messo al suo esatto posto, assistendo ad una perfetta sinfonia di voci e colori in perenne surplus emozionale.
Il lavoro sul divismo di Nicole Kidman trasfigura l’immagine della Principessa Grace, andando a costruire un mosaico perfettamente riconoscibile di donna d’altri tempi, dove l’etichetta impone il riserbo e le ansie, le frustrazioni date dai desideri personali, devono essere messe da parte.
Olivier Dahan si concentra sulla scena allestendo il set come un lungo concerto di voci intonate. La sua è una visione della ricchezza mai pubblicitaria, semmai romanzata, vicina alla testimonianza diretta di un momento epocale, dove il microcosmo sociale vive la congiuntura storica dovuta alla presenza divina di Grace, calamita di speranza e bellezza. Era la stesso meccanismo usato dal regista su Le Vie en Rose: nulla di male in questo, può piacere o meno, ma le biografie si girano così.
Grace di Monaco è anche un thriller spionistico divertente e ben congegnato. Niente di trascendentale, non siamo dalle parti dei grandi autori, Dahan si immette nel flusso del mystery senza aggiungere alcuna parvenza di personalismo, il suo cinema si cimenta nella ricostruzione d’epoca aulica, dove il tempo si riflette ansioso e stanco, congelando la fotografia nel calore di una comunicazione segreta.
Doveva essere il grande film della noia intonsa, del polpettone improponibile Grace di Monaco. Ne viene fuori un ritratto d’epoca misurato, dove tutto quello che ci deve essere si presenta senza alcuna forzatura o patetismo. Tutti i personaggi vengono orchestrati con mestiere sopraffino, televisivo, didascalico e corretto.
Ma non c’è alcuna critica in questo aggettivo. Dipende semmai dal punto di vista, da quello che si cerca in un film. Molti crederanno di vedere nel film di Dahan un glorioso fallimento divistico, un’opera uguale a se stessa e patinata. Invece è il trionfo del profilmico, è cinema sul tempo che mette in scena la sua morte infinita, senza alcuna pecca se non quella di rappresentate la fine della rappresentazione ornamentale, come fulcro di una narrazione che mantiene lo sguardo scevro da qualsiasi manierismo visivo. Non ci sono caricature, solo personaggi impressi nel solco del tempo.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).