Il Profeta

Malik è un giovane sbandato, entra in galera dopo un piccolo furto. L'esperienza in carcere cambierà la sua vita radicalmente.
    Diretto da: Jacques Audiard
    Genere: thriller
    Durata: 155'
    Con: Tahar Rahim, Niels Arestrup
    Paese: FRA, ITA
    Anno: 2009
8

Più di Tarantino, più di Avatar, più dei film bushani della Bigelow, il film che ha più segnato il decennio degli anni ’00 è un thriller carcerario francese di Jacques Audiard, Il Profeta (2009), un’opera che reinventa il genere, decide slittamenti di politica della visione, infondendo un nuovo cuore neorealista al genere, al cinema, ai suoi codici di rappresentazione.

Audiard rileva nella realtà qualcosa di impuro e sconnesso, rimette in gioco la sfuggevolezza dell’immagine, prepara un assalto di gran classe, confezionando un’intelaiatura drammatica da far spavento. E’ un film che riempie gli occhi Il Profeta, che incolla allo schermo, che denuda il cinema mostrando lo scheletro della narrazione come un strumento di emozione perennemente rinnovato e conscio. Il cinema di Jacques Audiard ammanta la realtà di un gergo povero che ristruttura la visione, rende emblematica la requisitoria morale di un’intera generazione.
Ne Il Profeta il personaggio principale percorre un sentiero che lo riporta alla riappropriazione di sé e Audiard ne accompagna la ritrovata sete di coscienza con un afflato che ricorda lo Scorsese degli anni ’70. Ma qua non v’è alcun debito del regista francese nei confronti del filmmaker americano. Audiard inventa un cinema spregiudicato e chiarissimo, infimo come una lama di rasoio, pretendendo dal suo cast l’interiorizzazione di un dramma che accomuna tutti.

Il Profeta è sintassi cosmica del classicismo, morte e rinascita della visione, superamento del limite del visibile, iconicità segreta di un richiamo alla sfera dell’insondabile. E’ per questo che un film rimane nella memoria, è per questo che se ci vuole un francese per dire certe cose, allora è vero chi dice che Hollywood non se la passa molto bene negli ultimi anni.
Audiard concepisce l’idea di una stortura all’interno del sistema-società e ne disintegra i pilastri, affondando la coscienza negativa in un racconto che si fa spirale della finitezza dell’essere. Raccontare il mondo attraverso le regole di un abominio di cui in pochi sono a conoscenza.
Il cinema francese si abitua a vedere il mondo costruendo una drammaturgia che non si abbassa mai a ricopiare il modello dei noir americani, ma che impone una costruzione concitata di anime imposta attraverso la collocazione degli elementi in uno spazio ben codificato della visione, centrando con penetrante pertinenza il punto fondamentale della questione: come arrivare alla sublimazione del genere?

Riportando lo sguardo alla sua naturale essenza, riducendo al massimo lo scarto tra visibile e rimosso, non indulgendo mai sull’analisi di un realismo becero, ma operando la necessaria trasfigurazione imposta dal genere di operazione che il contesto richiedeva. E’ così che la visione si impone ad un livello supremo, toccando la radice dello stupore e della magniloquenza. Attraverso una semplicità di tocco di cui non si aveva più memoria da tempo.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).