I misteri del giardino di Compton House

In Inghilterra nel 1694 la signora Herbert commissione al riluttante pittore Neville dodici disegni della sua abitazione immersa in un sontuoso giardino. Al termine del lavoro i disegni sveleranno indizi importanti riguardo ad un intrigo.
    Diretto da: Peter Greenaway
    Genere: drammatico
    Durata: 108
    Con: Anthony Higgins, Janet Suzman
    Paese: UK
    Anno: 1982
8.2

I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) uscì in Italia il 4 Novembre 1983. Non ho potuto avere accesso alle schede dell’epoca pubblicate su Cineforum e Segnocinema, quindi mi devo basare solo sulla scheda del Mereghetti, il quale gli diede un voto buono ma non ottimo. Come si sa il Mereghetti non ha mai apprezzato il regista inglese. Peter Greenaway nella sua carriera non ha mai vinto premi importanti, il suo cinema resta rigoroso e ostico ma non difficile come quello di Haneke, Tsai Ming Liang, Nuri Bilge Ceylan o Lav Diaz. Le sue commedie grottesche sono spesso inclassificabili.

Oggi a distanza di 40 anni viene riproposta una nuova edizione rimasterizzata del film. Un film in costume, un intrigo impertinente e sagacemente sarcastico. Lo avevo visto due volte su piccolo schermo e con la visione su grande schermo per la prima volta ripete la stessa sensazione di smarrimento avvenuta con le precedenti: dopo 75 minuti si comincia perdere i fili della trama. Lo spettatore rischia di perderli, ma non il regista che è capacissimo di aprire svariate ramificazioni narrative e a chiuderle perfettamente nel finale. Anche se lo smarrimento è abbastanza letale nella seconda parte. Come avviene oggi nei complessi labirinti estetici di Wes Anderson, anche in questo film di Greenaway il ritmo delle battute scorre velocissimo, e non ci si può permettere di perdere un attimo, altrimenti si rischia di non capire più nulla. Nella trasposizione cinematografica de Il Signore degli Anelli di Jackson avviene la stessa cosa, ma non perché gli attori recitano mettendo la quinta, ma perché è la fonte letteraria ad essere improba da mettere in scena (chi è che si ricorda cos’è Minas Tirith? solo i pochi che hanno letto tutto il romanzo-fiume).

Oltre alla difficoltà di seguire la trama, ci si accorge, vedendo il film su grande schermo, che Greenaway non muove quasi mai la mdp, prediligendo i piani fissi, all’interno dei quali gl attori vengono fatti interagire in modo via via sempre più esplosivo. Solo nelle scene dei banchetti Greenway usa precisi carrelli laterali. Nell’edizione originale si può apprezzare l’accento inglese squillante di un cast perfetto, anche se l’edizione italiana aveva creato un eccellente doppiaggio.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).