Il Labirinto del Fauno

Nelle zone rurali del Nord della Spagna, nel 1944, durante la dittatura di Franco, una bambina, Ofelia, si trasferisce con la madre incinta nella casa del padre adottivo, il Generale fascista Vidal. Ofelia ha una fervida immaginazione e inizia a vedere un Fauno, che le parla d un Mondo Sotterraneo.
    Diretto da: Guillermo del Toro
    Genere: fantasy
    Durata: 118'
    Con: Ivana Baquero, Sergi Lopez
    Paese: SPA, MES
    Anno: 2006
7.9

Cosa si chiede al fantasy? Forse la riproposizione di mondi fantastici sempre incontrati, ma mai vissuti nella piena consapevolezza di essere al centro di una disputa tra le incommensurabili forze del bene e del male. Peter Jackson con Il Signore degli Anelli trasporta lo spettatore in un oltre mondo perfettamente digitalizzato e holywoodianamente anonimo, che solo nella prima parte riesce veramente a farsi carico di una leggerezza di tono necessaria per entrare nel mondo di Tolkien, difatti i successivi due capitoli si conformano com una autocelebrazione stantia del successo del primo capitolo.
Solo dieci anni dopo arriverà il successo televisivo di Game of Thrones, produzione che punta tutto sui primi piani quadratici, esteticamente ovvi e su una trama che tutto mostra senza lasciare nulla all’immaginazione. Il successo deriva dal mix furioso di ampi usi di nudità femminili e violenza (già stravista a go go nella serie tv) morbosa e stantia. Ma si sa che in qualche modo bisogna placare la pancia dello spettatore.

In questo contesto di prima e dopo, nel mezzo di queste due produzioni speculari ed eterne, dove Hollywood celebra la propria potenza cristallina, si installa l’operazione del messicano Guillermo del Toro, Il Labirinto del Fauno (2006), che farà impazzire talmente l’Academy Awards da concedergli ben 3 premi su 6 nomination: miglior fotografia, scenografia e make-up. Nella competizione di allora venne battuto uno dei capolavori più fulgidi e flemmici di Christopher Nolan, The Prestige, ma si tratta di un dettaglio.
Il Labirinto del Fauno sembra una produzione ad altezza di infante con una furia lisergica che deve fare i conti con un immaginario fantasy molto ben codificato. Tutto già si sa di streghe, elfi, fate, incantesimi, altri mondi, scuole di magia, unicorni, diavoli con corna enormi.
Cosa ci si può ancora inventare per vincere la concorrenza di un mercato palesemente ingolfato da qualsiasi tipo di prodotto?
Del Toro decide di costruirsi una storia di fantasia ambientata durante la Spagna violenta, franchista del ’44. La protagonista è una bambina, Ofelia, e il polo narrativo è situato nella figura della madre che aspetta un figlio dal generale fascista. Ofelia si rinchiude in un universo fantastico dove incontrerà un’enorme rana, la quale vomiterà una chiave magica che servirà alla bambina per entrare nel Mondo Sotterraneo, dove incontrerà il Fauno amico Pan e dove rischierà di finire tra le fauci del mostro senza occhi.
La costruzione narrativa ostentata da del Toro è elementare: nulla di nuovo sotto il sole. Il fascino del fantasy di del Toro viene da una riproposizione di topoi di genere collocati in una dimensione estetica ben più sporca e realistica di quella de Il Signore degli Anelli, ma più allegorica e fiabesca di quella dura, selvatica, diretta, piana, bidimensionale di game of Thrones, operazione totalmente di set, talmente realistica da non riuscire mai a trasportare lo spettatore in un altro universo.
Del Toro opera per scarti, ripropone il cliché nella sua forma originale grazie al suo cinema infantile e spregiudicato, affonda nel sangue quando è necessario (l’efferata violenza del Generale Vidal), usa simboli carichi di potenza visionaria già vista e sentita ma con uno sforzo visivo degno di Legend di Ridley Scott (la mandragola che protegge la madre dalla maledizione, che poi viene gettata nel fuoco), si immagina un universo visivo vicino all’umore picaresco di Balada triste de trompeta di Alex de la Iglesia (2010), anche se meno selvaggio e caotico del thriller-mélo spagnolo ambientato durante l’epoca franchista.
Del Toro è libero di applicare una dimensione spettacolare (che non significa “action”) sperimentale che ai tempi di Harry Potter e Lo Hobbit non sarebbe consentita a Hollywood. difatti la produzione è quasi misera per gli standard di una major (19 milioni) e per il reigsta messicano non c’è alcun condizionamento dall’alto. Niente 3D, nessun attore famoso, nessun effetto speciale volitivo. Il Signore degli Anelli, King Kong, Lo Hobbit, tutto il cinema di Jackson da La Compagnia dell’Anello in poi soffre di una autocelebrazione da parte delle major.
Risultato: i film a distanza di 10-8 anni rivelano la loro patina digitale, l’impossibile connubio tra attori in carne ossa (ma spesso purtroppo si tratta anche di clamorosi miscasting) e codici alfanumerici, Pixel e volti veri. Niente da fare, è come vedere un mosaico di forme ibride che strillano enunciati invisibili (si veda la danza sul ghiaccio di Naomi Watts con King Kong). Del Toro prende l’oscurità invisibile e l’attualizza sulle forme del cinema che prendono dalla materia prima il loro nutrimento: desiderio d’inconoscibile, l’incanto di forme irrequiete e mai viste, lo spettro del visibile e l’inganno dell’invisibile. Il Labirinto del Fauno è come La Storia Infinita di Wolfgang Petersen, trasforma i cliché del fantasy in arte.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).