Steve Jobs

La battaglia compiuta dal demiurgo della Apple Steve Jobs per affermare nel mercato la sua innovativa idea di personal computer, dalla presentazione del Macintosh 128k nel 1984 fino al lancio dell’iMac nel 1998. Al suo fianco l’inseparabile segretaria Joanna Hoffman. Mentre la moglie lo mette davanti alle sue responsabilità di padre.
    Diretto da: Danny Boyle
    Genere: biografico
    Durata: 122
    Con: Michael Fassbender, Kate Winslet
    Paese: USA, UK
    Anno: 2015
7.7

Possono coesistere correttezza e genialità? Se lo chiede Steve Wozniak, interpretato da un perfetto Seth Rogen, nel terzo atto del capitolo finale (?) della trilogia di Aaron Sorkin dedicata a uomini visionari capaci di influenzare la contemporaneità e indirizzarla verso una sempre maggiore dipendenza alla tecnologia, all’algoritmo, al metodo statistico. Dopo lo Zuckerberg di The Social Network e il Billy Beane di Moneyball, lo sceneggiatore decide di affrontare in Steve Jobs la personalità dell’individuo che ha maggiormente rivoluzionato il modo di relazionarsi agli affetti, al lavoro, alla vita, concependo la possibilità di utilizzare un computer per compiere qualsiasi azione. Abbattendo ogni distanza, ogni barriera: non solo dal punto di vista fisico e territoriale ma anche da quello di accessibilità sociale. Le conseguenze che il progresso tecnologico, attraverso internet e l’iperconnettività, ha comportato sulle nostre esistenze sono senza dubbio discutibili e contraddittorie, esattamente quanto lo è il carattere del protagonista del film diretto da Danny Boyle: le ombre sembrano oscurare qualsiasi chiave di lettura buonista e consolatoria.

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La vita del genio della Apple non è raccontata in maniera canonica, perché Sorkin ha preferito focalizzarsi soltanto su tre episodi fondamentali della carriera: la presentazione del Macintosh 128K nel 1984; il fallimentare lancio del NeXT Computer nel 1988; la presentazione dell’iMac nel 1998, che ha poi aperto la strada alla Apple. Tre atti: teatrali, decisivi, emblematici, dove i personaggi e gli eventi si ricostruiscono a poco a poco, per mezzo di dialoghi fitti e parole mitragliate, vere e proprie rasoiate che potrebbero assomigliare a una canzone rap tradotta in immagini. Steve Jobs è un film senza cuore, che non concede di provare alcun tipo di empatia con nessun personaggio: non soltanto con il suo sgradevole “direttore d’orchestra”, neppure con i suoi musicisti, che sembrano non possedere mai la forza per ribellarsi alla potenza seduttiva e demagogica del loro burattinaio.

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Sono due le doti che permettono a Jobs di attirare l’attenzione dei media e di sovrastare chi avrebbe meritato più di lui le luci della ribalta: non il talento, non la competenza, ma l’ambizione e la perseveranza, che automaticamente si traducono in carisma e sicurezza di sé. E così, non si può che rimanere affascinati e ammaliati di fronte all’ossessiva ricerca della puntigliosità di questo maestro dell’inganno: Steve Jobs è più consapevole di chiunque altro che la capacità comunicativa e l’apparenza sono ciò che conta davvero per ricevere i meriti dell’opinione pubblica. L’abito farà sempre il monaco. L’ispirazione creativa di Sorkin è al suo vertice: il film è una piece che avviene tra camerini e corridoi, come a ribadire che la vita di un individuo è sempre e comunque riassumibile dietro le quinte. Sul palcoscenico non si vede altro che il prodotto di un inganno, la sintesi di una versione dei fatti: quella più commerciabile, competitiva e concorrenziale. Il merito di Danny Boyle non è, però, troppo inferiore a quello di Sorkin: dopo (pochissimi) alti e (troppi) bassi, il regista inglese torna a farsi misurata e funzionale a un racconto sulla consistenza della superficie e sull’indissolubilità tra ambizione e apparenza. Purtroppo, il cerchiobottismo dell’Academy ha completamente ignorato il loro (capo)lavoro, riconoscendo con la nomination all’Oscar soltanto quello di Michael Fassbender e Kate Winslet.

A proposito dell'autore

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Laureato in giurisprudenza e autore del blog Il bello, il brutto e il cattivo. Si innamora del cinema nel 1999, dopo aver visto Tutto su mia madre, L'estate di Kikujiro, Eyes wide shut... Oggi, i suoi autori di riferimento sono Paul Thomas Anderson e Lars von Trier. Attualmente collabora con la rivista di cinema Ciak.