Camille Claudel 1915

In una casa di cura psichiatrica, la scultrice e pittrice francese Camille Claudel passa l'inverno del 1915, aspettando una visita del fratello Paul, nella speranza di poterlo convincere a tornare a Villenueve e lasciare un luogo dove si sente reclusa.
    Diretto da: Bruno Dumont
    Genere: drmmatico
    Durata: 95'
    Con: Juliette Binoche, Jean-Luc Vincent
    Paese: FRA
    Anno: 2013
7.4

Per Bruno Dumont la narrazione non ha mai costituito una legittimazione del processo filmico. Dumont preferisce concentrarsi sui paesaggi, sui volti scavati dal dolore, sulle situazioni di un verismo accecante, sul naturalismo, sui pudori, le piccole ansie, il tutto mirabilmente fotografato da eccezionali operatori (da Yves Cape a Guillaume Deffontaines) che puntato a ridurre l’inquadratura all’essenziale bellezza di una spoliazione virginale. Tutti i film del regista francese sono concepiti in questa maniera, neanche il suo ultimo Camille Claudel 1915, il primo con una star di fama mondiale, vincitrice di un Premio Oscar, Juliette Binoche, che appare del tutto connaturata al viaggio emozionale, che è emblema del progetto filmico di cui Dumont si è sempre fatto portavoce.

In questo caso Dumont prende in mano la biografia della scultrice e pittrice francese Camille Claudel, fatta internare in un manicomio dopo una lunga relazione artistica e affettiva con il grande scultore e pittore Auguste Rodin.
Dumont si concentra sulle minime parti dei sottili silenzi, le assurdità della vita in manicomio di una donna che pazza non era, avendo infatti come unico torto quello di essersi dimostrata più talentuosa del grande Rodin. E in una società maschilista e patriarcale come quella, il fatto che una donna potesse essere migliore di un uomo, era considerata un’eresia.
Ma nell’opera scarna e precisa, purista di Dumont queste cose non ci sono. Dumont scarnifica ogni passione, ogni anelito di grazia dal volto, dalla vicenda della pittrice, ottenendo una spoliazione che attenua il dolore e documentando solo gli aspetti più umani della vicenda, procedendo quasi a tentoni, con una lentezza abissale che non si fa mai vero abisso.
Attraverso questa “nomenclatura marxista” Dumont non ci fa mai sentire il cuore di Camille Claudel, il suo cinema si finge analitico ma è puramente formale, senza fare mai maniera di se stesso, ma non se ne registra mai il senso emozionale. Ne esce fuori un documentario finzionale che ambisce alla perfezione figurativa, ma non va mai oltre la superficie delle cose. Lo sguardo è troppo dimesso.
La scelta di non narrare e di concentrarsi solo sui volti veri, sofferenti dei matti del manicomio porta ad una pacificazione con il cuore pulsante di Camille Claudel, spegnendone lo spirito ne riconfigura una forma d’altrove, attraversando nel fuori campo un passato che forse non ha mai avuto.
Dumont toglie piacere alla visione, toglie compassione alla vicenda, ritrovando forse un senso di pietà perduto. Eppure non si va mai oltre questo formalismo desueto, questa ridondanza visiva che limita sempre il campo d’azione.
Dumont non ambisce a trasformare il dolore di Camille Claudel in uno spettacolo dei sensi.
Il fatto che il film termini dopo 1 ora e mezza di figure, paesaggi, impressioni di verismo laico e di una religiosità tutta fatta di gesti minuti, come avviene nella realtà vera, si ha la sensazione che il film sia l’abbozzo non compiuto di un film di qui a venire. Dumont ha mostrato ma non ha raccontato, ha rappresentato ma non ha usato nel contesto di un qualsivoglia trasporto emozionale. Queste cose si potevano vedere nel piccolo gioiello di Hadewijch (2009), ma qua sono del tutto assenti.
Dumont lascia la sua opera vagane nella memoria con quelle scritte che ci informano del fatto che nonostante il dottore del manicomio abbia acconsentito il ritorno a Villenueve di Camille Claudel, lei rimarrà in manicomio fino alla sua morte.
E’ una chiosa improvvisa che lascia troppe vie narrative inespresse, forse data la vicenda di Camille Claudel non si poteva fare altro, ma allora perché fare un film così corto che lascia troppo nel fuori campo? Questo Camille Claudel 1915 è una docufiction biografica, un film che non si evolve per motivi interni alla trama. Dumont non ha voluto indagare ulteriormente nella figura della scultrice per sposare un’ideologia di verismo e di poesia estremi.
E’ l’eterno dilemma con questo autore: a forza di fare in cinema spoliato, marxista, verista, povero e purista, si rimane col niente in mano, Anche con una forma sublime, non ci si accontenta di così poca carne al fuoco.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).