Forse Il Grande Gatsby (2013) di Baz Luhrmann rappresenta la fine di qualcosa. La fine di un certo modo di pensare il cinema. Forse addirittura la fine di un’epoca. Come se si trattasse di una cesura temporale. La fine di un certo tipo di postmodernismo, l’incrocio tra il classicismo e la modernità.


Tarantino aveva sperimentato questa estetica in un noir come Pulp Fiction nel 1994, quando ancora molti si chiedevano cosa fosse il postmoderno.
Poi lo stesso Tarantino continuò con un aggiornamento di quel tipo di estetica, in quel frammentario, geniale e incompiuto musical della citazione che era Kill Bill (2003-2004), vero e proprio testo ambivalente e manifesto di cinema corsaro, di pura anarchia sperimentale.
Un’opera narcisa che se ne fregava di qualsiasi plausibilità, dove Uma Thurman veniva usata come un vettore di sensorialità nascoste. Non tutto tornava (anzi, a dir la verità proprio nulla, perché solo i tarantiniani doc non lo ammettono che quella sfacciata operazione era un fallimento colossale), ma l’inventiva del regista era al suo punto più estremo e nessuno badava alle incongruenze del caso.
Dal canto su Tarantino con Kill Bill ha fatto divertire gli spettatori, divertendo se stesso, utilizzando le stesse armi estetiche utilizzate dal Luhrmann de Il Grande Gatsby, ma nessuno conto nessuno lo ha accusato di aver rimesso in moto un modo di far cinema fuori tempo massimo: un cinema geniale, iper-fusion, mai domo, un vulcano di invenzioni a propulsione cosmica, teso a portare il cinema su un’altra galassia.
Luhrmann questo gioco di riprendere le macerie del postmoderno per usarle in modo del tutto geniale e mai visto non è riuscito a riproporlo. Dopo Romeo+Juliet (1996) e Moulin Rouge! (2001) si deve essere rotto qualcosa nel processo creativo del regista e la magia è scomparsa.
Luhrmann ha dovuto fare i conti con la fine una visione monumentale. La fine del suo cinema non è con Australia (2008), che è un film che poteva benissimo non esserci, tanto inutile nel contenuto, quanto fatiscente nella forma.
Solo Spielberg è riuscito con War Horse (2011) a prendere in mano una storia archetipica e a costruirci spora un cinema cristallino e resistente al tempo, resistente alla visione di uno spettatore del tutto disabituato ai cliché.
Non si potrebbe credere neanche per un istante alla storia del “cavallo magico” di Spielberg, ma il regista di E.T. torna alle radici del suo cinema e lo riscopre dal nulla, cosa che a Luhrmann con Australia non riesce mai. 
Si può credere alla coppia KidmanJackman?No, pre nulla. Non c’è chimica tra i due, il film non è abbastanza finto da essere credibile. Ci voleva un’altra attrice al posto della Kidman. E un volto più sporco di quello di Jackman.
Ma torniamo al Grande Gatsby e a quello che doveva essere e non è stato. Luhrmann con il suo ultimo film pretende di ricostruire il mélo di Douglas Sirk, pretende che gli spettatori si abbandonino alla retorica del sovraccarico, che aveva tenuto per puro miracolo in Moulin Rouge!, ma che qua frana in una maniera sconsiderata, bislacca, quasi rivoltante.
Cosa è successo? Perché il mélo accesissimo di Luhrmann coccia? Anche Il Grande e Potente Oz (2013) di Sam Raimi non sta in piedi, eppure funziona che è una meraviglia, diverte, eccita, c’è un lavoro di profilmico che fa impressione.
Un film riuscito e straordinario, un film per il pubblico girato come un’epopea autoriale. Quello che non riesce a Luhrmann che accende tutti i fuochi d’artificio del suo cinema ma non ridà mai l’essenza del tempo del cinema, quella che si era vista in Moulin Rouge!
Luhrmann prende i colori ovattati e gira un pantomima di un catalogo di Vogue, senza pensarci troppo, travolge e stravolge i sensi, ma sempre troppo tardi, arriva come l’attaccante davanti alla portiere libero di sfondare la rete dell’avversario, pur essendo oltre la linea dei difensori al momento dell’assist perfetto: sempre in fuori gioco. E’ così che il suo cinema finisce per annullarsi da sé, per eccesso di zelo, attraverso una perfezione sguaiata che si rivolge contro il suo creatore.
Forse per Lurmann il tempo del cinema non esiste. E’ sicuramente un dato positivo, che fa de Il Grande Gatsby un’opera multicolore, che riesce a spiccare il volo senza chiedere il permesso a nessuno. 
Cinema menefreghista che mette in scena il passato, in un apnea di fuochi d’artificio senza alcuna nostalgia di riporto.
Pura inventiva di un cinema velocissimo e ad alto voltaggio di corrente. Che rimane là a farsi ammirare, funziona solo per slancio emotivo, ma l’immaginario proposto rimane disarticolato e forse si adegua a tempi che non sono mai esistiti.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).