Cosa rimarrà del cinema di Lars Von Trier? Da L’elemento del crimine (1984) a Melancholia (20011), la filmografia del regista danese amplia e stravolge le proprie traiettorie, offrendo un panorama visivo che deraglia ogni convinzione, per abbandonarsi ogni volta al nichilismo più reazionario.
Von Trier ha in effetti un problema non da poco: ad ogni film deve dimostrare a se stesso di essere non un genio, ma il più grande di tutti. Questo pone dei problemi in quanto Von Trier ha sempre bisogno di costruirsi una gabbia-film da cui tentare di evadere, usufruendo di un personaggio-martire, che è un’attrice.
Probabilmente il pubblico femminile si sente così attratto dal cinema di Von Trier perché si sente violentato dentro, e ringrazia così il Maestro Von Trier di aver “violato” la propria intimità mentale e psichica producendo dei personaggi femminili sempre complessati, distrutti, martirizzati, offesi, umiliati.
Dal punto di vista strettamente psicologico è un ricatto narrativo niente male.

Poi si arriva a considerare i film per quello che sono e, a distanza di 18 anni dall’esordio, L’elemento del crimine, che iniziava la fase formalista del cinema vontrieriano, con la fotografia giallo ocra e con il solito plot narrativo che non sta né in cielo né in terra. E’ il Von Trier di Epidemic, Medea (tratto da un testo di Dreyer, uno che di poesia invece se ne intendeva, e molto anche), si può dire che si è arrivati ad uno stallo decisivo, perché Melancholia, se possibile, funge da cartina di tornasole rispetto a tutta la filmografia precedente del regista danese. Melancholia rimane un’opera splendida ma impalpabile, del tutto non necessaria, pesante ma non pensante, con una trama ridotta all’osso e con il solita, insopportabile presentazione di personaggi-macchiette. In Melancholia la supponenza narrativa di Von Trier raggiunge il suo culmine, perché si tratta forse della sua opera più scopertamente idiota, e del suo film più auto celebrativo. Von Trier detesta i suoi personaggi, non gli sta più attaccato come in Le onde del destinoDancer in the darkDogvilleManderlayAntichrist, ne vede l’evoluzione drammatica in un crescendo di fatti disomogenei tra di loro (perché in un film come Melancholia potrebbe davvero accadere di tutto, tanto il regista non saprebbe comunque dargli un senso), tradendo la sua stessa vocazione di regista d’assalto, e imbastendo una regia smorta, da depressione visiva che elude ogni rispetto per la causa di un cinema selvaggio e puro, ricalcando le note di un qualche Sigfrido di lontana memoria.
Comunque, se il cinema di vontrieriano è fatto di attrici-martiri, Nicole Kidman è stata l’unica attrice a non essersi lasciata ingabbiare dal film-trappola dell’esigente regista danese.

Non che il cinema di Von Trier sia bello e necessario perché brutto sporco e cattivo.
Il regista danese non si può nemmeno meritare l’appellativo di regista politicamente importante, non può vantarsi assolutamente di essere considerato una scheggia impazzita dell’immaginario, facendo un cinema talmente addomesticato nel proprio dogma visivo, tale da non riuscire mai a fare un cinema frontalmente e politicamente ambiguo, come capita invece al cileno Pablo Larrain, che con i suoi due film Tony Manero e Post Mortem (li ho citati volutamente, perché personalmente li ho detestati entrambi e in maneira piuttosto repentina) ha fatto un cinema molto più “pericoloso” e intimo, sofferto e vagante nel magma pulsante che è l’animo umano. Quindi si lasci perdere il fatto che il sotto scritto preferisce gli “splendori” del cinema: la differenza tra un cinema che ha qualcosa da dire e un cinema che non ha niente da dire non sta nella presunta bellezza/bruttezza delle inquadrature, a nel senso dell’inquadrare, e nel senso da dare al film che si sta facendo, tentando di essere il più possibile onesti con se stessi.

Riguardo al cinema di poesia, Von Trier riesce appena ad essere un cineasta raffinato e furbo nel vendere le proprie carabattole da sortilegio cinematco, ma del tutto inconcludente quando si tratta di conferire verità ai personaggi. In questo il cinema di Von Trier è del tutto conformista e pacchiano e ricorda le furbate di altri due mediocri, uno di lusso come Almodovar, un altro meno di lusso come Darren Aronofsky.
In questo senso, nell’incapacità di fare cinema di poesia, Von Trier non potrà mai essere accomunato a registi del calibro di Robert Bresson, Dreyer, un genio come Victor Erice, ma potrà sempre e solo assomigliare a un Almodovar o ad un Aronofsky. Perché?
Von Trier possiede una visione del mondo ma non una sufficiente calma per attraversarlo in un modo pulito, schietto, “puro”. Von Trier cerca la purezza, la cerca a tutti i costi, ma il suo sgangherato senso della mediocrità misto a nervosismo, lo porta a condensare un miscuglio di sensazione eterogenee tra di loro, senza che queste trovino un loro senso organico. Non è cosa da poco.
Si rivedano a proposito Lo Spirito dell’alveare e El Sur di Victor Erice, ma anche i recenti Honor de cavalleria e il capolavoro El cant dels ocells del genio Albert Serra: pulizia grafica a 360°, senso estetico-estatico di inquadrature meravigliosamente tagliate da una luce scarna e limata dai silenzi e dalle attese di un’anima che pulsa di vita interiore. Questo è cinema.

Non le Bess-Selma-Grace-Her violentate-umiliate-offese degradate giusto per far palpiate i cuori di spettatrici ingorde di emozioni forti. Questo è un cinema della violenza, un cinema brutale che chiede un’attenzione estrema da parte dello spettatore. Si sa che nei film di Von Trier accadrà sempre qualcosa di negativo. Questo gà basta allo spettatore per avere la certezza che prima o poi ci sarà la solita riproposizione di shock visivo-emotivi e/o di emozioni forti che andranno a frugare nell’animo di ognuno. Questo è il cinema di Von Trier: sconvolgere per il puro piacere di farlo. Non è onesto? Più che altro, non è per niente utile e abitua lo spettatore ad essere una sorta di leone in gabbia o un toro a cui viene sventolata la classica bandiera rossa, tale da farlo infuriare ogni volta che si presenta una scena emotivamente importante.
Cinema come shock visivo. Come si è arrivati ad un cinema festivaliero tanto povero?

Con il cinema vontrieriano siamo dalle parti di Almodovar e del peggior Aronofsky, un cinema genialoide e convulso, sempre pronto a prendere per i fondelli lo spettatore mai sazio di false novità, come se il cinema fosse ridotto ad una sagra degli eccessi, dove alla fine, vince quello che ha prodotto il fuoco d’artificio più frastornante e fragoroso. E’ un modo di pensare che non porta davvero da nessuna parte.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).