Il consigliori

Il protetto di un boss della mafia di Los Angeles, Thomas detto "consigliori", vuole uscire dal giro della malavita per sposarsi. Ma una guerra tra bande lo richiama all'ordine.
    Diretto da: Alberto De Martino
    Genere: thriller
    Durata: 104'
    Con: Tomas Milian, Martin Balsam
    Paese: ITA, SPA
    Anno: 1973
2.9

Il tema musicale di Riz Ortolani, nel prologo de Il consigliori, è una melodia carezzevole – ma tempo un minuto, e volano già schiaffoni: tale Torrese, portamento malavitoso e sberla facile, attacca briga al bowling, litiga con un poliziotto, viene arrestato e torchiato sui propri “amici importanti”.
Dal carcere non uscirà più, infilzato da uno sbirro al soldo di uno di quegli amici, Don Antonio Macaluso (Martin Balsam), ma sempre dal carcere uscirà presto il figlioccio del boss, giovane avvocato del diavolo, Thomas Accardo (Tomas Milian). Con un’idea in testa, dopo due anni di riflessione al fresco: andar via da San Francisco, “vivere come vivono gli altri”, magari con la propria donna (Dagmar Lassander). Disimpegno difficile, perché sa troppe cose: eppure Don Antonio ha il cuore tenero. Il problema è che per Don Vincenzo Garofalo (Francisco Rabal) l’abbandono dell’avvocato, detto il “consigliori”, è il pretesto per scatenare una guerra di successione anticipata. Thomas torna, da pacificatore, perché “Don Antonio mi riguarda sempre”: ma la pace si fa anche col mitra.

                                                            L’AZIONE È COSA NOSTRA –
La solita musica, si disse all’epoca (1973) del poliziottesco a sfondo mafioso di Alberto De Martino, con Morando Morandini che sulle pagine de Il Giorno definì addirittura il regista “imitatore degli imitatori”. Musica violenta, certo, che non lesina esecuzioni, tra forni che s’improvvisano a roghi e bidoni d’acido con cui sciacquare la faccia degli sgherri del lato sbagliato: ed anche le esecuzioni musicali di Ortolani s’incanagliscono al momento giusto, diventando le classiche sparate funk di genere, con percussioni tonanti.
Che sia il bolo – anche musicale – digerito e ridigerito dei film di casa nostra (o di cosa nostra), o, come pure la critica diede ad intendere al tempo, una qualche versione risciacquata e poco saporita della minestra de Il Padrino, per dire Italians do it better, o almeno Italians do it, too, Il consigliori di Alberto De Martino ha il ritmo misurato del buon cinema d’azione: basterebbe citare l’efficace montaggio della prima vendetta del consigliori, di nuovo in carica a fianco di Don Antonio, con i volti e le canne dei rispettivi sputapallottole che si alternano nel ra-ta-ta-ta visivo.
                                                       OMINICCHI E MANICHINI –
Alla crudezza dei regolamenti di conti pure non si risparmiano distesi interludi, sempre assecondati dal soundtrack a tratti persino fischiettante, ma soprattutto dai cenni di elegia insanguinata dei duri: dalla stanca vecchiaia di uno dei patriarchi della cosca, Don Michele Villabate, a cui Carlo Tamberlani restituisce le umane fattezze del tramonto, ai rapporti sentimentali del consigliori: quello d’onore e gratitudine col padrino, quello persino patetico con la compagna, Laura Marchison, al terminal di un aeroporto, “vorrei che tu dicessi al tuo padrino che quando si ama non importa chiamarsi Marchison o Macaluso”, mentre la traccia sonora trapassa dal morriconiano al melodramma. Nostalgia canaglia, o solo così fan le canaglie, si torna pure in Italia, in Sicilia, per un duello su di una cittadina arroccata, a mo’ di sfida nell’alta sierra tra clan della malavita.
E se in tanti noir in bianco e nero si finiva tra i manichini (Il bacio dell’assassino di Kubrick o Operazione terrore di Blake Edwards), in ambientazioni espressionistiche popolate dai simulacri, nella Sicilia della processioni, adibita a Little Italy, in cui i botti d’artificio fanno volutamente da presagio a breve raggio, si muore tra i colori, e capita pure che il rosso del sangue sia preceduto da quello del buon vino, ed i drappi funebri da quelli della Madonna nel corteo religioso.
Un film di poche parole, insomma, dai toni internamente modulati, certo già sentiti altrove, ma soprattutto con la scorrevolezza di un discorso cinematografico dialettale, italiano, che non appartiene all’oratoria alta, e che pure tra poliziotti marci, avvocati a mano armata e ruspe per i cadaveri, riesce a seppellire i propri trascurabili – o semplicemente “calibrati” – difetti: forse perché davvero l’Italia era qualcosa di più della “provincia” di Hollywood, o di San Francisco, quando produceva film del genere.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".