Reazione a catena

Un serial killer agisce in una villa isolata, uccidendo 11 persone, tra cui un'anziana contessa e i suoi parenti. Chi si cela dietro la figura dello spaventoso assassino?
    Diretto da: Mario Bava
    Genere: horror
    Durata: 84'
    Con: Claudine Auger, Luigi Pistilli
    Paese: ITA
    Anno: 1971
6.9

Nomen omen, quel titolo italiano – Reazione a catena – con cui Mario Bava licenziò nel 1971 una delle poche opere di cui si disse davvero soddisfatto. Il presagio era quello di una sequela di epigoni, una catena di delitti cinematografici di cui il film, autentico slasher ante litteram, avrebbe costituito il primo anello. Se nel calendario dei successori s’indica spesso Venerdì 13, c’è da dire che il pregio dell’antesignano non è solo nella precedenza, ma anche in ben altro malefico cinismo.

Al principiare degli anni settanta, dunque, quelle roncole assassine sono tutt’altre che arrugginite, tenute, com’erano, da un’impugnatura dal polso fermo: banditi i traccheggi psicologici, restava una cattiveria pura, un ritmo dal passo insanguinato, volti che nemmeno facevano in tempo a stupire al rilucere d’un riflesso sinistro in punta di lama, prima di essere fagocitati dal ritmo omicida imposto dalla girandola di omicidi.
Baia di sangue, invece, il titolo in una delle traduzioni inglesi (A Bay of Blood, ma anche a Twitch of Death). Perché, di fatto, tutto ruota attorno ad una baia. E ad una baita.
Nel prologo senza parole, la Contessa Federica (Isa Miranda), su una sedia a rotelle, è ammazzata dal marito, che fa però appena in tempo a simularne il suicidio prima d’essere a sua volta freddato da un altro killer.

Si scatena un gioco perverso di mire e speculazioni che ruotano attorno alla proprietà, e coinvolgono, in un ambiguo tourbillon, il figlio illegittimo della donna, Simone (Claudio Volontè), rozzo pescatore – anche di cadaveri; l’architetto e agente immobiliare Frank Ventura (Chris Avram), con tanto di galoppina bionda (Anna Fossati); una sorta di figliastra macbethiana, Renata (Claudine Auger), che trascina come un golem il marito Alberto (Luigi Pistilli) nella corsa all’eredità; persino quattro malcapitati giovinastri, due ragazzi con le rispettive fiamme, forse abbordate poc’anzi.

I mostri della laguna

Proprio l’incursione dei giovani, una parentesi apparentemente episodica, è tra le utili chiavi di lettura del sottotesto di Reazione a catena. Prede dei propri istinti, poi prede e basta, i quattro sembrano sempre sul punto di copulare, di abbandonarsi ad un istinto animale, di fornicare (corrosivamente macabra la scena dei due amanti trafitti dall’arpione).
Nondimeno, col loro aspetto à la page e quell’attitudine disco dance che si scatena appena si pompa un po’ di musica, sembrano inoculare un elemento intruso nel contesto primordiale dei “mostri della laguna”: la civiltà. Altro che staying alive.
Precedentemente, nel film, Bava introduce il personaggio di Fossati (Leopoldo Trieste), un entomologo dall’inquietante monomania per gli insetti. È introdotto con maestria dopo un primo piano di Simone che addenta un polpo, seguito da una carrellata che fruscia tra cespugli ed erbe, fino ad uno zoom-in su due occhi attraverso un binocolo: sono quelli di Alberto, che insieme alla moglie monitora con loschi propositi la riva, ove compare anche il cacciatore d’insetti.

Quando si esce dalla visione “binoculare”, il dialogo tra cacciatore e pescatore culmina nella nemmeno tanto scherzosa recriminazione di quest’ultimo:

SIMONE: Io, almeno, il mio polipo me lo mangio; ma uccidere per hobby, come fa lei….
FOSSATI: per Dio, Simone, mi fai sentire un assassino, adesso!
SIMONE: no, io non ho detto questo, Signor Fossati! Però è vero che quando si uccide contro le leggi di natura, si diventa dei mostri, no?
FOSSATI: Ma l’uomo non è mica un insetto, caro Simone. Noi abbiamo alle spalle decine di millenni di civiltà, lo sai?
SIMONE: No, io non so niente. Io non c’ero.

Ecologia di un film

Questa “eziologia” dell’ammazzamento, per cui in base alle ragioni dell’uccidere si può fuoriuscire dall’alveo del vivere civile, fa da pendant con un altro titolo italiano del film: Ecologia del delitto (L’antefatto).

I personaggi sembrano dunque isolati nell’ecosistema, al vetrino o al binocolo della macchina da presa, in un contesto in cui si succedono azioni e reazioni secondo una logica di animali evoluti: non già la sopravvivenza, è in ballo, quanto qualche raffinato, basso istinto: umano perché ferino. Un insettario a grandezza naturale, dunque, in cui riformulare l’evoluzione come involuzione, o semplicemente trovare qualche sacca purulenta d’un vivere apparentemente civile del quale è facile “non sapere niente”, ergo, ricordarsi della propria animalità.
A fronte di questa finezza – assente negli slasher-mascherata a seguire – l’andamento della caccia grossa segue un tam tam di genere sublimato con gelida coerenza espressiva entro un incastro narrativo che seduce nonostante la macelleria: o forse, proprio per essere un “delicatessen” di raffinata seduttività.
Col melodramma tribale dalle pulsazioni rock in soundtrack di Stelvio Cipriani, il sangue color amarena degli effetti speciali di Carlo Rambaldi, la politezza fotografica curata dallo stesso Bava, Reazione a catena travalica la somma dei propri elementi, supera il diligente funzionamento: è un’implacabile marcia di morte, un nocturno della civiltà che si snoda con la logica adamantina ed impenetrabile di un cristallo nero.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".