Il dio serpente

Una giovane donna italiana sposa un ricco uomo dei Caraibi. Qui incontra un'indigena che la introdurrà alle pratiche della magia nera. Tra queste c'è il culto del "dio serpente".
    Diretto da: Piero Vivarelli
    Genere: avventura
    Durata: 94'
    Con: Nadia Cassini, Beryl Cunningham
    Paese: ITA, VEN
    Anno: 1970
5.8

Ne Il dio serpente di Piero Vivarelli, a buon diritto ma con vista corta, si sono evidenziati i due caratteri da cartolina, quelli più pruriginosi per lo sguardo: l’incantevole bellezza di un’acerba e spaesata Nadia Cassini, statuaria attrice italo-tedesca (ma nata a Woodstock) qui all’esordio; gli scenari incontaminati del Tropico che una ricercata e nitida fotografia riesce a valorizzare. In altre parole: l’erotico e l’eostico. Una tra la sequenze memorabili, tuttavia, può avvicinare meglio alla complessità di un film a tratti confusionario, ma non per questo vacuo: il rituale in cui Nadia Cassini si abbandona, al pari delle bellezze d’ebano, come una baccante dei Caraibi, sul montaggio frenetico che caldeggia lo sfrenarsi delle percussioni.

Così, qualche anno più tardi, anche Laura Gemser in Emanuelle nera (1975), in una scena che si conclude con la donna che si concede all’amore carnale con gli indigeni. Ma mente nel film di Bitto Albertini la protagonista assecondava la propria libertaria disinibizione avvicinandosi ad una cultura tribale, in quello di Vivarelli, specie per effetto delle soggettive con i volti che incombono sul corpo invasato della Cassini, nonché per la sinistra, aleggiante presenza del dio serpente, la sensazione è quella di un magnetismo sacrificale, un vodoo degli ormoni: si è più esposti all’area di un erotismo pericoloso che di un piacere liberatorio. Lo conferma l’inquietante incontro con una donna del luogo, che si fa dare un passaggio e lascia l’auto profetizzando: “ci rivedremo ancora. Ti aspettiamo. Lui ti aspetta”.
PAURA E DESIDERIO – C’è dunque un’atmosfera in genere associata al filone dei mondo-movie, ma a ben vedere, travalicando i confini posti da etnie ed ambientazioni, varrebbe la pena parlare di una contaminazione da folk-horror, ricordando con audacia che un certo corrispettivo “pagano” ed anglossassone sarebbe stato tre anni più tardi The Wicker Man di Robin Hardy, tra i cult dell’orrore più tribolati ed apprezzati del ventesimo secolo. Questo predecessore sbilanciato sull’eros, anziché sul thanatos, presenta insospettabili tangenze: anche a voler tralasciare la scena della capra sgozzata, o quelle nel santuario di pietra, si può citare quella dell’accennata masturbazione di Paola, seguita dal rito sulla spiaggia con gli indigeni di colore dal viso dipinto di bianco ed il rettile che striscia, che si sviluppa con una colonna sonora thrilling, in un misto di paura e desiderio che sembra convogliare verso la cooptazione fisica in una cultura altra.
Le numerose parentesi da documentarismo voyeuristico, in voga in quegli anni, paiono funzionali ad alimentare questo genius loci, l’atmosfera, l’esprit d’un posto che tende a possedere fisicamente la bianca “civilizzata”, destabilizzandone i preconcetti non meno di quanto se ne facciano tremare le gambe per il desiderio: “a lei, Padre, questa sembra una festa religiosa?”, chiede Paola al curato locale, che risponde “qui non conta tutto quello che ci hanno insegnato”.
E quando esplicitamente si finisce a parlare di civiltà, nel dialogo tra Stella e Tony, il simbolo dei bianchi è nell’architettura coloniale barocca del palazzo dell’Inquisizione: una nota in nero, ma soprattutto la roccaforte della libertà negata. Quella libertà che, come in Emanuelle nera, è la carne a riguadagnare materialmente su un piano che è più generalmente esistenziale.
LIBERTA’ IN BIANCO E NERO – Anche questo Eden, d’altronde, ha i suoi frutti: e nel santuario dei bianchi, lo yachtino con gli alcolici di marca, Paola, Stella e Tony consumano, in un gioco di sguardi seduttivamente rallentato, tre frutti polposi. Simile gioco di sguardi precederà, poco oltre, l’accoppiamento incrociato bianco/nero, né bianco, né nero, Tony/Stella, Paola/Djamballà: un sincretismo delle pulsioni, certo efficace a pelle – un livello al quale ci si può fermare; ma non per questo privo di sottotesti. Paola che si toglie l’anello prima di lasciare la barca, abbandonando il ceppo occidentale, e poi ricompare nuda in spiaggia come novella Eva possono essere schematismi naive, eppure incidono sul senso dell’opera di Vivarelli. Film cult, colonna sonora di Augusto Martelli (“Djamballà”) che divenne subito una hit.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".