Dolls

Nel Giappone di oggi si alternano tre tragiche storie d'amore: due amanti camminano ininterrottamente legati ad una corda rossa, un ex capo della Yakuza torna dalla sua donna che lo aveva atteso per tutta la vita, il fan di una pop star decide di sfigurarsi dopo che lei ha perso un occhio.
    Diretto da: Takeshi Kitano
    Genere: drammatico
    Durata: 114'
    Con: Miho Kanno, Hidetoshi Nishijima
    Paese: GIAP
    Anno: 2002
8.1

Amanti infelici che errano incatenati per sempre, follia d’amore che s’intreccia con tardivi sensi di colpa, dedizione assoluta e senza compromessi verso la persona amata. Nei tre episodi che compongono Dolls (2003) sembrano inseguirsi fantasmi e disperazioni sentimentali che rimandano più all’universo artistico di Kenji Mizoguchi che a quello di Takeshi Kitano.

Incastonato fra il solido Brother (2000) e il compiaciuto Zatoichi (2003), molto più fortunati al botteghino, Dolls è probabilmente il film di Kitano più meditativo di sempre, insieme a Il Silenzio sul Mare (1991). La messa in scena ispirata al tradizionale teatro delle marionette, il Bunraku, esplicitamente citato nell’incipit e nell’ultima immagine, è controllata e calcolata: ma nella sua geometria non sono contemplate linee rette o figure riconoscibili.
Come in altri suoi lavori, Kitano mantiene l’attenzione fissa sulla tragedia del carattere: Dolls è un saggio in forma di elegia sull’impossibilità di vivere di un amore puro senza penzolare sul bordo della follia, smarrendo le misure del mondo (fuori campo il gangster pagherà molto cara la leggerezza dovuta ai sentimenti ritrovati).
Il film, che fu presentato in concorso a Venezia nel 2002 – ma per il Leone d’Oro gli fu preferito il più modesto Magadalene di Peter Mullan – non è in ogni caso una vacanza dalle atmosfere yakuza abituali nel cinema del suo autore, come pure è stato detto.
É invece un lavoro che affianca allo spiazzante e ghignante cupio dissolvi dei protagonisti di Sonatine (1993) e Hana-Bi Fiori di fuoco (1997) il dolore di non essere ancora morti (scomparsi) dopo che l’esistenza si è eclissata: come anime dantesche, anche il nerd e la pop star sopravvivono dimentichi a se stessi nella consapevolezza della perdita, nella ineluttabilità di un destino che si compie e che li esclude dalla vita, benché non dal rammarico e dall’infelicità di un amore non vissuto.
Si può dire che sia l’altra faccia del pessimismo cosmico di Kitano, che prende su di sé tutta la feroce assenza di significato del vivere, con personaggi al limitare del grottesco e del sublime, ma riserva uno sguardo silente e patetico ai più sensibili e ai marginali. Non per questo il suo mondo poetico ne risulta meno compatto e coerente.
Nel contemplare la condizione di questi spostati, Dolls continua a riferirsi ad un canone universale, espresso con l’insistenza metaforica e pittorica sulle stagioni che si avvicendano e accortamente sublimato nel teatro delle marionette della tradizione giapponese.
Questi uomini che hanno perduto la ragione avanzano cioè sulla scena come automi, ma conservano un barlume di anima, partecipando del grande gioco del mondo e della vita. Forse il centro filosofico di Dolls, come del cinema di Kitano tutto (o quasi) è proprio in questo: nel presentire la morte e ciò nonostante possedere ancora un alito di vita.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...