Il barone di Munchausen

Il barone di Munchausen si è ritirato dal mondo degli esseri umani e vive sulla Luna. Un giorno sbarca sulla Luna Tonik, che convince Iil barone a tornare sulla Terra per liberare la principessa Bianca dal malvagio Sultano che la tiene prigioniera.
    Diretto da: Karel Zeman
    Genere: fantasy
    Durata: 83'
    Con: Milos Kopecky, Jana Brejchovà
    Paese: CEC
    Anno: 1962
8.5

Karel Zeman (1910-1989), è un cineasta cecoslovacco che produsse le sue opere migliori dal 1958 al 1970. Iniziò la sua carriera come animatore e dopo aver lavorato a dei corti dal 1946 al 1950, passò ai lungometraggi d’animazione, fino ad arrivare ad un cinema fiabesco a metà strada tra live action e animazione a passo uno.

Il Barone di Munchausen (Baron Prasil, 1962) è la trasposizione romanzata del celebre romano di Rudolph Erich Raspe (1736-1794), una commistione tra attori, figure animate, scenografie surrealiste, atmosfere rococò, gotiche, dove il manierismo non prende mai piede.
Il cineasta ceco riprende uno stile riallacciatosi all’immaginario antico e moderno, pronunciandosi in una visione che mima l’arte della prestidigitazione cara a Georges Melies, combinando un’avventura che, vedendolo a distanza di anni, dopo la visione delle costosissime produzioni di Peter Jackson e l’estetica da circense di Terry Gilliam, riporta alla mente una concezione di cinema povero, immersa nel contesto di un’illusione immaginifica che non tende mai a strafare, ma sorprendere per audacia e senso plastico dell’invenzione.
La semplicità spartana di una produzione costruita sul nulla non è necessariamente fonte di capolavori, difatti uno dei pochi cineasti di Hollywood capaci di coniugare i milioni delle major con la qualità estetica è stato Sam Raimi, che ha applicato la sua mentalità low-budget alla produzione multimilionaria di Il Grande e Potente Oz, opera di fatiscente ricchezza visiva e narrazione classica dal tono puramente fiabesco, dove non si ha mai la sensazione di una regia ridotta con il pilota automatico. I tempi dunque cambiano, da Zeman a Raimi, ma il cinema come invenzione ritmica dell’intenzione ancestrale rimane un punto fermo dell’immaginario fanatsy.
Karel Zeman rientra in un contesto di “mentalità del cinema scenografico” proprio come inventore di mondi sulfureo e romantico.
In Baron Prasil convivono idee e mondi lussureggianti pur nati in un sistema di cinema degli ambienti limitrofi, dove quello che attira l’occhio sono le magie dei trucchi ottici, dei parallelismi visivi, dove le ellissi concentriche e le rotazioni funanboliche della mdp svelano raccordi impensabili tra immagini diverse e ugualmente potenti: la fotografia di Jiri Tarantik si integra con i fondali dipinti come un vettore di sostanza turgida, acerba e malleabile, tale da poter indicare Zeman come un Melies cecoslovacco.
In particolare da notare la scena iniziale ambientata sulla Luna: Zeman arriva ad inventarsi qualcosa di inaudito: mostra per la prima volta le impronte sul suolo lunare degli scarponi spaziali, identiche a quelle che lascerà Neil Armsrong nel 1969. Se non lo si vede, si stenta a crederlo. Questo è uno dei motivi che rendono il fantasy di Zeman qualcosa di totalmente fuori dall’ordinario.
Se lo stesso Melies avesse potuto andare avanti nelle sue produzioni per il cinema. avrebbe avuto la possibilità di diventare uno Zeman degli anni ’30-’40? Il primo autore di cinema fantasy della storia del cinema, era e rimane ancora più folle di Zeman, ma in Baron Prasil ci sono tutti i prodromi per indicare al mondo una nuova strada, che porterà alla nascita dello stile Gilliam, persino del cinema horror poverissimo di Roger Corman, fino ad arrivare agli horror di Raimi degli anni ’80.
In Baron Prasil la storia del cinema compie passi da gigante, del tutto sconosciuti agli spettatori di Harry Potter e Lo Hobbit. Zeman ha avvicinato il cinema alla superficie lunare di un onirismo coacervo di misteri e invalicabili soglie di percezione primigenia, il suo cinema è un miracolo dato dalla congiuntura dei tempi, insinuandosi nelle maglie della memoria come un oggetto misterioso sempre a metà tra sperimentalismo e classicità.