Dobbiamo dire grazie a Robert Altman. Tra i più prolifici e versatili nonché decisivi registi americani degli ultimi trent’anni del secolo scorso, il grande Bob ha tra le altre cose il merito di averci regalato una scena che lì per lì avrebbe anche potuto non sembrare così importante (ma i giurati di Venezia la pensarono diversamente, regalando alla sua protagonista la prima delle sue due Coppe Volpi). Ci riferiamo ovviamente alla sequenza di America Oggi (Short Cuts, 1993) in cui Julianne Moore gira per la casa senza mutandine durante una rabbiosa scenata di gelosia del consorte: la naturalezza con cui l’attrice indossa un nudo tanto impegnativo è sbalorditiva e lascia interdetto lo spettatore più di Matthew Modine.

 

L’attrice (il cui vero nome è Julie Anne Smith ed è originaria del North Carolina) aveva già preso parte in ruoli minori ad alcuni film di quegli anni (La Mano sulla Culla, Body of Evidence) dopo un praticantato decennale in teatri off-Broadway e in soap operas televisive. Da quel momento la sua carriera è stata tutta in ascesa, a cominciare dal ruolo da protagonista disorientata nel brechtiano Safe (id., 1995) di Todd Haynes, regista che saprà valorizzare al meglio la versatilità della Moore anche in seguito. Anche Hollywood sembra accorgersi allora delle sue doti di interprete: e se il sequel spielberghiano di Jurassic Park (Il Mondo Perduto – Jurassic Park, 1997) non le permette di brillare, è nella parte della porno attrice Amber Waves in Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997) che la Moore raggiunge un nuovo picco, in quello che è forse il miglior film di Paul Thomas Anderson: una saga sugli outsiders che tocca vertici di amarezza composta e inusitata. Nello stesso anno il successo di uno dei film più ludici e scaltramente popolari dei fratelli Coen, Il Grande Lebowski (The Big Lebowski), non ha fatto che confermare l’abilità con cui la Moore passa da un personaggio ad un altro, sempre con stile e ironia.

 

Meno nelle sue corde pare invece il personaggio di Clarice Sterling, nell’evitabile seguito del Silenzio degli Innocenti, ossia Hannibal (2001) di Ridley Scott: ma anche in questo caso l’attrice ne esce con onore, pur nel generale naufragio del film che poggia sul romanzo di uno scrittore in fase calante come Harris.
Il punto più alto della carriera di Julianne è probabilmente datato 2002, allorché Todd Haynes le dona un’eccezionale parte da protagonista in Lontano dal Paradiso (Far from Heaven), mélo di dichiaratissima ascendenza sirkiana, tra Secondo Amore e Lo Specchio della Vita, che le vale una nuova Coppa Volpi a Venezia con un’interpretazione sublime per un film di rara bellezza e intensità. Per lo stesso ruolo ottiene la nomination all’Oscar, senza venire però premiata. Cosa che le succede anche per l’interessante The Hours di Stephen Daldry, tratto dal bel libro di Michael Cunningham, in cui è ancora una moglie infelice e disadattata.

 

I film successivi della sua carriera sembrano dare invece ragione a chi sostiene che il cinema americano fatichi a trovare ruoli importanti per le sue interpreti over 40, per quanto la Moore sappia farsi valere persino in parti esplicitamente da commedia. Ma nell’insieme si lasciano ricordare il controverso dramma fantapocalittico I Figli degli Uomini (The Children of Men, 2006), il piccolo ruolo in Io non sono qui (I’m not there, 2007) del solito Todd Haynes e soprattutto A Single Man (2009), riuscito esordio alla regia dello stilista Tom Ford, tratto da un altro bel libro, questa volta di Christopher Isherwood. In esso ancora una volta Julianne sa tratteggiare l’inquietudine con raffinatezza e credibilità pressoché assolute, come mostra da ultimo il suo incontro con il mondo di David Cronenberg in Maps to the Stars (2014), film in cui il grande cineasta canadese non pare peraltro capace di reinventare il suo stile nella feroce denuncia dello star system hollywoodiano, che si rivela un incubo imprendibile persino per lui.

 

Ma anche quando il ruolo è stereotipato come in Don Jon (2013) di Joseph Gordon-Levitt o banale come nel brutto remake del depalmiano Carrie, Julianne Moore non sfigura affatto e sa catturare l’attenzione dello spettatore. Merito di una classe innata, di un’intelligenza spiccata che ne fa la musa di molti autori (come poteva essere un tempo la meravigliosa Gena Rowlands), di un coraggio nel mettersi in gioco che pochissime altre attrici americane possono oggi vantare.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...