Quand’è che Hollywood si deciderà a dare un Oscar a Tom Cruise? Succederà come a John Wayne che vinse per uno dei suoi film minori, Il Grinta (True Grit, 1969, Henry Hathaway), ma finì per risultare un premio alla grande carriera del “Duca”, protagonista delle opere di John Ford come Stagecoach (Ombre Rosse, 1939), The Searchers (Sentieri Selvaggi, 1956), The Man Who Shot Liberty Valence (L’uomo che uccide Liberty Valence, 1962), The Quiet Man (Un uomo tranquillo, 1952); e di Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959, di Howard Hawks).

Tom Cruise ha avuto la possibilità nella sua carriera di primeggiare sulla scena di Hollywood come il Duca? Forse non ha avuto la stessa fortuna, ma su una cosa i due attori hanno una cosa in comune: l’altissimo valore di figure iconiche.
Tom Cruise nella sua trentennale carriera, prima di essere definitivamente lanciato dal successo di Top Gun (1986) è passato attraverso straordinari insuccessi di critica come Legend di Ridley Scott (1985), dopo aver fatto il diavolo a quattro pur di interpretare il ruolo del protagonista in Brazil (1985) di Terry Gilliam, ruolo che poi andò a Jonathan Pryce, attore meno fascinoso di Cruise ma funzionale nell’impersonare un giovane, grigio impiegato sognante, che viene stritolato da un sistema burocratico quasi vampiresco.
Prima di Top Gun, oltre a Legend, un altro fondamentale film aveva marchiato a fuoco l’icona-Cruise: The Color of Money (Il colore dei soldi, 1986), con Paul Newman e Mary Elisabeth Mastrantonio, mirabile commedia sportiva che esemplifica con esattezza cristallina, epocale, il decennio del carrierismo rampante, il desiderio di emergere ad ogni costo, l’individualismo basato su una spregiudicatezza che metteva il capitalismo stesso su un piedistallo dal quale non sarebbe mai sceso (nemmeno il crac-Lehman è riuscito a far crollare questo mito, come ben spiega Wolf of Wall Street di Scorsese).
In un trio di opere come Legend, Top Gun e Il colore dei soldi la figura di Cruise non ha eguali a Hollywood, la sua aura giovanilista è ritenuta insopportabile dalla critica (che spesso gli preferisce i mostri sacri De Niro, Pacino, Nicholson), e spiazza il pubblico che idolatra lo Schwarzenegger di Terminator, Predator e Commando o lo Stallone delle serie di Rocky e Rambo. Per lo meno con questi ultimi due lo spettatore può riconoscere un maschilismo tutto muscolare che va a pennello con il reaganismo imperante, ma quando si trova davanti la spregiudicatezza dell’attore-ragazzo Cruise, il pubblico applaude a denti stretti e forse non si fida di un volto ancora acerbo.
Vero la fine degli anni ’80 arrivano i due film con i quali l’attore si supera: Rain Man L’uomo della pioggia di Barry Levinson e soprattutto Nato il 4 Luglio di Oliver Stone diventano grandi successi di pubblico e critica. Il mélo familiare di Levinson è una delle operazioni hollywoodiane più ruffiane e indigeribili che si siano mai viste, ma i votanti dell’Academy si emozionano e premiano il film. Il dramma di Stone è teso e calibrato sull’attore, che esprime tutto il suo virtuosismo tecnico.
La nomination all’Oscar per Cruise arriva solo con il film di Stone ma non si trasforma in vittoria, che andrà al Daniel Day-Lewis di Il mio piede sinistro di Jim Sheridan. S tratta comunque di due performance dove entrambi gli attori sono chiamati ad impersonare due personaggi dotati di handicap: sono proprio queste che di solito fanno impazzire gli stagionati votanti dell’Academy.
Nella carriera di Cruise manca però l’horror e allora l’irlandese Neil Jordan gli dà la possibilità di cimentarsi nel ruolo di un vampiro immortale nella ricostruzione barocca di Intervista col Vampiro (1994), dove oltre a Cruise compaiono nel ruolo di vampiri Brad Pitt, Antonio Banderas, Stephen Rea e una giovanissima Kirsten Dunst. Il ridicolo potrebbe essere dietro l’angolo, difatti il pubblico gradisce, mentre la critica si divide, tra chi vede la grande voleè estetica e chi giudica l’operazione finta.
L’Academy Awards premia l’horror con due nomiantion per la miglior scenografia e la miglior colonna sonora, ma arriva anche il premio “al contrario” dei Razzie Award per la peggior coppia, Cruise e Pitt. Intervista col Vampiro rimane un’opera complessa, autoriale, mascherata da noir romantico, dove la cronaca di un tempo passato diventa la prospettiva da cui guardare la vicenda da parte di personaggi che, non potendo morire, guardano sempre con distacco i moti dell’anima e la vita che scorre con totale freddezza. Una freddezza anche estetica, che grazie alla mano di Jordan si trasforma in arte.
Dopo aver eseguito il “compitino” nel blockbuster di Brian De Palma Mission: Impossibile (1996), per Cruise potrebbe arrivare la consacrazione da parte dell’Academy con il ruolo del guru del sesso Frank T. J. Mackey nel controverso, genialoide e iperautoriale Magnolia di Paul Thomas Anderson (1999), ma ancora una volta l’Academy gli dice di no, stavolta a rubargli la vittoria è Sir Michael Caine, che finalmente ottiene la statuetta per la melassa hollywoodiana de Le regole della casa del sidro di Lasse Hallstrom.
Tom Cruise mette tutto se stesso in un ruolo che cala a pennello su di lui. Anderson era stato contattato direttamente da Cruise, dopo che il divo aveva visto ed era rimasto impressionato da Booghie Nights (1997), facendogli capire che era sua intenzione lavorare con lui. Anderson cuce come un sarto il ruolo sulla figura iconica del divo, riuscendo nell’impresa che non era riuscita a Danny Boyle con Leonardo DiCaprio in The Beach (2000): destrutturare l’icona-Cruise, facendo un film sul vuoto di valori dell’America contemporanea. Il risultato di un’opera come Magnolia è geniale e freddo, Cruise dà l’anima e la sua performance sovra-eccitata, ma grazie al talento di Anderson non si trasforma mai in over-acting insopportabile. Magnolia rimane una delle opere più complesse degli anni ’90, dove non tutti i tasselli tornano a posto e si torna a respirare l’aria del miglior cinema di Robert Altman.
Per contro, se Magnolia è l’operazione dell’over-acting per Cruise, Eyes Wide Shut (1999) è il dramma da camera mortuaria, dove l’attore deve confrontarsi con i tempi morti del cinema di Stanley Kubrick. La lavorazione del colosso autoriale è lunghissima e travagliata, Kubrick fa ripetere spesso le scene agli attori e il risultato è uno stupendo quadro notturno, un’elegante raffigurazione di una borghesia ricca, colta che si guarda allo specchio in cerca di se stessa. Il film è freddo ma emozionante, non saremo mai dalle parti di un fallimento estetico come L’odore del sangue di Mario Martone (2004), per molti temi affine al film di Kubrick. L’icona Cruise ne esce comunque svilita e rifulge invece il fascino preraffaellita di Nicole Kidman.
L’unico modo che ha l’attore per tornare in forma è un grande regia che faccia da direttore d’orchestra e chi meglio di Steven Spielberg? Nel kolossal di fantascienza tratto da Il rapporto di minoranza di Philip K. Dick Cruise si trova nuovamente a suo agio, dentro un’intelaiatura da action furibondo dove le psicologie hanno un’importanza pregnante. Spielberg dirige un film perfettamente inserito nel contesto post-9/11 dove si immagina un mondo comandato da un efficientissimo sistema di polizia dove i “pre-cog” immaginano i delitti prima che vengano commessi: la metafora è sull’America che nonostante un sistema come Echelon, non è riuscita a prevenire la tragedia delle Torri Gemelle.
Spielberg e Cruise si ritroveranno in seguito per un altro film, La guerra dei mondi (2005), ma gli esiti non saranno al livello di Minority Report.
E’ invece con un altro grandissimo “direttore d’orchestra” come Michael Mann che Cruise si avvicina sempre di più all’iconografia del Duca John Wayne: Collateral (2004), dove l’attore interpreta Vincent, sicario professionista assoldato per eliminare in una notte i 5 testimoni di un processo.
Il look di Vincent/Cruise si stampa definitivamente nell’immaginario collettivo e la critica 8(soprattutto italiana) viene sedotta da questo thriller girato con grande maestria da Mann che sperimenta il digitale, fotografando le notti losangeline ,costruendo una topografia di anime che vagano nel grande nulla di un cosmo impazzito e limitrofo. Numerose i momenti cult, come la scena della discoteca. L’Academy rimane però fredda davanti a questa sublime performance: né regista né attore vengono candidati.
Dopo l’exploit di Collateral la stella di Tom Cruise sembra appannarsi con film minori quali Operazione Valchiria, Leoni per agnelli e Innocenti bugie, quest’ultimo a fianco di Cameron Diaz.
Ma l’attore americano proprio negli anni ’10 sfodera altre due perle di genere, tornando alla prediletta fantascienza pura: Oblvion di Joseph Kosinski (2013) e Edge of Tomorrow Senza domani, di Doug Liman. In queste due opere di fantascienza di altissima fattura (il sottoscritto è uno dei pochi che ha adorato Oblivion, non capito e disprezzato dalla maggior parte della critica), Cruise torna grande protagonista dello schermo, celebrando il traguardo dei 50 anni con totale sprezzo del tempo che passa. Oblivion è un film di regia pura, dove il giovane Kosinski elabora un’idea tratta da una sua graphic novel.
Difatti Oblivion è la messa in scena di un nucleo narrativo che riporta alla mente le atmosfere di L’ultimo uomo sulla terra: totale assenza di effetti speciali (il film è costato 170 milioni, ma Kosinski è stato geniale a mascherarli attraverso il minimalismo estetico, come non accade in Avatar di James Cameron), geniale parsimonia visiva, un cast di attrici di primo piano, come Andrea Riseborough e Olga Kurylenko, quest’ultima attrice straordinaria, capace di recitare anche con pochi movimenti del volto.
Quella di Doug Liman in Edge of Tomorrow Senza domani si tratta di fantascienza videoludica, dove Cruise interpreta un diplomatico americano che si ritrova suo malgrado a dover scendere sul campo di battaglia contro un’orda di mostri alieni. Il film è uno straordinario “groundhog day with aliens and guns”, ovvero un film che funziona come un videogioco: ogni volta che il protagonista muore, ricomincia da capo, finché non trova il modo di sconfiggere il nemico. Ad accompagnare Cruise in questa avventura a per di fiato c’è una Emily Blunt militarizzata e perfettamente calata nel ruolo.
E’ con questa manciata di film che Tom Cruise si istalla permanentemente nell’apogeo delle più grandi star di Hollywood. Il suo carisma è fuori discussione anche se i critici che ancora dubitano della suo talento non mancano. Arriverà il giorno in cui i suoi film, oggi considerati forse spazzatura dalla critica più altezzosa, saranno rivisti, studiati e ricordati come eccellenti esempi di teoria cine-umanistica dove alla perfezione tecnologica si aggiunge una visione del mondo cupa e problematizzata da uno sguardo registico sempre vigile. L’attore-divo Cruise si mette sempre al servizio di una storia dove le componenti semantiche diventano la trasmigrazione di una fusione tra mente e corpo che genera il piacere alieno della visione.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).