Il momento della visione è l’attimo in cui ci si confronta con un film di cui non si sa nulla, se non vaghe informazioni relative alla trama, ma spesse volte, per non rovinare la visione stessa, si intraprende la visione senza aver letto nulla, essendo completamente all’oscuro. Questa è la sensazione in cui lo spettatore attivo-riflessivo può provare ad abbozzare una critica improvvisata del mezzo, tentando di dare un senso alle emozioni, insite nel duopolio positive-negative, attingendo a considerazione di cui poi sa che si dovrà comunque pentire.

 

E’ proprio questo mix di sensazioni che genere l’impossibilità di avere da subito un giudizio dell’opera. Sarebbe troppo facile e troppo difficile insieme dare un connotato alla visione, subito dopo l’esperienza.

E’ così che il giudizio si forma dopo mesi e mesi: le immagini si sedimentano nella memoria, la memoria lavora di scarto, a questo si aggiunge l’emozione che ricolloca ogni immagine, in un pronunciamento definitivo sull’intero processo, che si può avere solo quando il meccanismo critico getta la spugna e l’emozione si fa corpo.
Così si giunge ad una strutturazione dell’esperienza filmica, si raddrizza lo sguardo, anche attraverso la lettura dei fondamentali contributi critici (quasi mai digitali, sempre cartacei), ma sempre tenendo conto della polarità massima dell’atto creativo insito nella visione dell’immagine.

 

E’ così che un’opera, spesso alla prima ora, completamente subordinata al gusto critico, di mera addizione dei fattori algebrici che portano alla definizione del “buon film”, come Il Grande e Potente Oz di Sam Raimi (per citare solo il caso più eclatante) funge da operazione di totale spiazzamento del quadro visivo di riferimento. Perché un film può essere bello, brutto, può funziona o non funzionare, ma, alla fine, è il livello critico che si viene ad aggiungere alla somma degli addendi che danno la cifra dell’emozione spettatoriale, andando a conferiscono al film di Raimi un preludio verso l’armonia della visione, che lo spettatore-critico andava cercando da tempo e di cui si pensava aver perso le tracce.
E’ così che l’apparentemente mega colosso Disney di superficie, si tramuta in un’infuocata disputa tra good/evil, in una ampia strutturazione del narrato attraverso i più puri stilemi fiabeschi, in una logica che vuole l’immaginario della dispersione spazio-temporale rivoltarsi, creando un ibrido che funga da traino al limite postumo della visione. L’impercettibile incanto della metamorfosi visiva.

 

Così il film si Raimi diventa la prosecuzione di un lavoro già iniziato da Powell & Pressburger, da Baz Luhrmann, persino da David Lynch. I color acidi e accesi, l’uso del digitale pittorico e denso, le scenografie dalla prospettiva angolare che fungono da vettori di luce, le segome di un cast che si muove come su traiettorie di anamnesi lisergica, e una mentalità che fa dell’autoironia il punto focale della visione: tutti questi elementi coniugano la visione nel fulcro di ogni azione, circoscritta da uno script che visualizza uno script antecedente a fatti già conosciuti (Il Mago di Oz di Fleming, 1939), portando il meccanismo della fabula ad un altro livello.

 

Il discorso può essere esteso ad un film molto particolare come Lei di Spike Jonze, dove viene costruito un universo narrativo, di stampo fantascientifico, molto simile al nostro, in cui la percezione del tempo odierno viene rappresentata con dovizia di particolari, venendo comunque distorti e introdotti in una dimensione favolistica, molto somigliante alla nostra: questo genera un “attrito consapevole” che spiazza e rende la visione multipla, portando lo spettatore ad identificarsi con un personaggio inserito in un contesto del tutto freddo e inospitale, quasi come se si trovasse in una bolla spaziale e non si rendesse conto del mondo esterno.

Da qui in Lei lo spiazzamento dello spettatore è continuo e genera un attrito dispersivo inviolabile, arrivando quasi ad alienare il personaggio principale dallo spettatore, il quale, letteralmente, non comprende quello che ha visto, rimanendo invischiato in una ragnatela di episodi del tutto nuovi e incomprensibili.
Anche Lei, esattamente come Locke di Steve Knight, è un’opera che inchioda lo spettatore al muro, costringendolo a fare i conti con un’empatia divorante e improponibile. Si tratta di grande cinema dell’estasi congiunta, un territorio vago dove la mente è destinata a perdersi.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).