Una produzione da soli due milioni di dollari ha permesso nel 2009 la realizzazione di una delle opere più perfette degli ultimi anni, vincitrice dell’Oscar al miglior film straniero e in larga parte sorpassata ai Goya dal pur comunque notevole Cella 211 di Daniel Monzón. Scomodare una definizione così gloriosa non è fuori luogo quando si ha di fronte un quadro completamente privo di sbavature, dalle proporzioni e sfumature eccezionalmente calibrate, come contestualmente si rivela Il segreto dei suoi occhi. Il film del noto regista argentino Juan José Campanella narra di una vicenda così personale e totalizzante da far scaturire la vena artistica di una delle personalità coinvolte, ritrovatasi a parecchi anni di distanza a riflettere su un passato agitato che vedeva la corruzione tentare in ogni modo di legarle le mani, di allontanarla dalla tanto agognata risoluzione finale. Non è solamente coinvolta nell’ennesimo caso insabbiato, bensì nel traviamento delle indagini su un brutale assassinio con stupro di una graziosissima giovane, strappata alle gioie della vita in maniera atrocemente vile e prematura.

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Benjamín Espósito (Ricardo Darín) arriva a cogliere il sottile filo rosso che conduce al responsabile, una traccia lasciata con ineluttabile incisività dalla “passione”, elemento potente comune ad ogni uomo sulla faccia della Terra, compreso Pablo Sandoval (Guillermo Francella), esilarante e fedele braccio destro di Benjamín, e Ricardo Morales (Pablo Rago), indelebilmente segnato dalla perdita dell’amatissima moglie. Grazie al sostegno di Irene Hastings (Soledad Villamil), che condivide nella contemporaneità del soggetto il rimpianto per la strozzatura cui è andata incontro la propria relazione con il protagonista, verrà svelato il segreto che si cela nel titolo del lungometraggio, il quale sottolinea con pertinenza l’attenzione riservata alla disarmante espressività degli sguardi, siano essi benevoli o malati, sinceri o menzogneri, specchi di una “vita piena di niente” o di un tempo da dimenticare, catturati con eleganza e calore da una fotografia che non disdegna abili contrapposizioni di messe a fuoco.

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Sei anni dopo, sostenuto da un budget dieci volte superiore, si presenta al cinema l’inatteso remake, Secret in Their Eyes di Billy Ray. Sostanzialmente si è provveduto a rimescolare le carte in tavola, col risultato di smarrire ogni convergenza col capostipite. Cambiano l’epoca (le vicissitudini hanno luogo circa tre mesi dopo l’attentato alle Torri gemelle) e l’ambientazione (Los Angeles); vengono rimodellati i profili di alcuni personaggi secondari (il ruolo di Sandoval è ricoperto da Bumpy/Dean Norris, pingue essere “depurato” dal vizio del bere, tramutato in un’appena accennata tendenza ad insipidi peccati di gola); si modifica l’attribuzione del cognome “Morales” (non più appartenente al personaggio di Pablo Rago, bensì al miope superiore Martin aka Alfred Molina), nonché la relazione che si instaura tra la vittima e chi le sopravvive (Jess, interpretata da Julia Roberts, è madre, non certo moglie, di Carolyn).

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La presente “versione aggiornata” dei fatti, sfruttando un non dissimile metraggio di oltre due ore, risulta svuotata di pressoché tutti i maggiori significati e rimandi che andavano a ispessire il pregio della pellicola del decennio scorso, oltre a ritrovarsi tristemente atrofizzata la dimensione della suspense, rovinata in un abisso incolore (pure si ha il coraggio di parlare di “thriller ad alta tensione”, in alcune tagline promozionali). Non v’è poi complicità fra le diverse anime che vanno a comporre il cast: a titolo esemplificativo, il legame fra colui “che viene dalla parte sbagliata di Brooklyn” (Chiwetel Ejiofor) e la laureata di Harvard (Claire, le cui vesti sono affidate a Nicole Kidman) è debole, decisamente meno caratterizzante che in precedenza, a livello di presenza scenica e dialogica. Viene meno il motivo principe per cui si ripercorrono gli eventi trascorsi (per il protagonista Ray, dopo 13 anni passati ad archiviare carte, non c’è nessun libro da scrivere, solo un caso da riaprire); il cast principale, dunque, è decisamente sprecato, lontano dallo stimolare nel pubblico una qualche forma di affezione, nonostante lo sforzo di attribuire credibilità a chi è, appunto, ben lungi dall’avercela, soprattutto se affiancato agli esimi modelli sudamericani.

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La sceneggiatura a conti fatti vive di una rielaborazione sbiadita, impoverita e molto meno incisiva dell’eccellente copione di Campanella ed Eduardo Sacheri (autore del romanzo d’ascendenza); la regia di Billy Ray dal canto suo si presenta goffamente al confronto con l’originale, nel timido tentativo di rendere una qualche forma di omaggio (si veda la sequenza dello stadio, dove l’incredibile piano sequenza è solo vagamente accennato nel suo incipit), o anche semplicemente di distaccarsi dall’impronta originale: insomma, il taglio sincero e veemente, la spiccata capacità di passare da un tono brillante al suo opposto, da un’ironia deliziosamente scurrile al dramma più desolante, sono tutte raffinatezze cui si rinuncia con deprecabile sciatteria. Si può affermare a buon diritto che l’autore è rintracciabile solo in veste di produttore esecutivo. Il montaggio a tratti è fastidiosamente didascalico (come nella sequenza in cui si conoscono Ray e Claire) e non sempre facilita la distinzione fra i due diversi piani temporali, alternanza che invece costituiva un saldo punto di forza ne El secreto de sus ojos; le musiche, firmate da Emilio Kauderer, già collaboratore di Federico Jusid qualche anno prima, purtroppo rasentano la banalità, in un certo qual modo “americanizzate”, nettamente prive dell’ispirazione rintracciabile nella prova iniziale.

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Un altro aspetto che delude afferisce agli sguardi, non più così al centro degli sviluppi drammaturgici: ovviamente, non supplisce la naturale attrattiva della Kidman. Questo tragico elenco potrebbe continuare menzionando alcune scene dallo sviluppo innaturale, palesemente forzato e compresso (si riporti alla memoria il momento in cui la madre scopre il cadavere della figlia); si arroga il diritto di portare il film definitivamente alla deriva il finale stesso, il quale evira vergognosamente la valenza del predecessore, a partire dalla morte insulsa dell’avversario di Ray, Siefert (Michael Kelly), che poteva essere chiaramente circuita con facilità, fino ad arrivare allo scellerato atto conclusivo, saggiamente vacante nel soggetto di un tempo, responsabile di un senso di vuoto, gelo e soffocamento di inaudita efficacia. Il film di Billy Ray, in conclusione, potrebbe apparire una discretamente accettabile semi-disdicevole crime-fiction recitata nei limiti della decenza agli occhi di uno spettatore non particolarmente esigente e smaliziato, ma a quelli di chi ha potuto godere della visione del capolavoro di Campanella non può che ridursi ad un’inopportuna divagazione.

Qui potete trovare la video recensione di Raffaele Lazzaroni su Il secreto dei suoi occhi (2009 vs 2015)

A proposito dell'autore

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Classe 1995, in anni recenti si è incontrovertibilmente innamorato del cinema, interessandosi a qualunque genere di qualsiasi epoca, ma senza mai perdere la bussola della qualità artistica. Frequenta il DAMS a Padova e cura un suo canale YouTube di critica cinematografica, "Il taccuino del giovane cinefilo".