Mank

A Hollywood nel 1934 lo sceneggiatore Mankiewicz è impegnato nella stesura dello script di Quarto potere per il 24enne Orson Welles. Sullo sfondo, l'avvento del nazismo in Germania e le elezioni americane.
    Diretto da: David Fincher
    Genere: biografico
    Durata: 131
    Con: Gary Oldman, Amanda Syfried
    Paese: USA
    Anno: 2020
8.1

Netflix colpisce ancora. Per l’ennesima volta un cineasta di serie A collabora con la casa di produzione più in voga oggi e produce un film-nanerottolo come Mank, un’operetta che non va a parare da nessuna parte. Era già successo a Scorsese (The Irishman) e a Cuaron (Roma), di girare film né belli né brutti, al massimo appena appena curiosi, degni di nota, più o meno autoriali (il nome di Scorsese e di Cuaron attira un relativo numero di spettatori, ovvio), più o meno rinviabili a futura memoria, se il tempo concederà ai suddetti prodotti una prova d’appello o una seconda, più entusiasmante, vita.

Fincher era atteso al varco dopo tre film nettamente dimenticabili, oggi lo si può dire con tutta onestà e calma: The Social Network, con il trio dei mocciosi in cerca di vana gloria Eisenberg-Timberlake.Garfield; il pesantissimo nichilista metallaro, estenuante Millennium e il più che esecrabile L’amore bugiardo, o meglio il cinema bugiardo, che può essere ricordato solo per la sontuosa interpretazione della Pike. L’autore di Seven riprende una vecchia sceneggiatura del padre Jack Fincher e dirige una piatta, piattissima ricostruzione della Hollywood dell’epoca. Siamo nel 1934 e il regista Mankiewicz deve consegnare lo script per Orson Welles. Sullo sfondo il nazismo alle porte in Germania e le elezioni americane.

Per il resto, il profilmico la fa da padrone: ottimi fotografia in b/n, costumi, scenografie, make-up, ma già dopo 40 minuti si boccheggia. La visione non è tanto differente rispetto ai sopra citati film di Scorsese e Cuaron. Ci si domanda perché. Cosa ce ne dovrebbe importare di una vicenda così stranota? E allora si torna a fare il buon vecchio discorso intorno all’impaginazione, alla eccellente confezione. Il sottoscritto ha trovato devastanti anche gli occhioni di Amanda Seyfried, tremenda ad ogni scena. Ma saranno miei difetti di comprensione del film, lo rivaluterò, magari vincerà l’Oscar (Fincher lo meriterebbe per Seven e Zodiac), eppure le immagini non mentirebbero neanche se fossero proiettate su grande schermo.

Il risultato finale è assai modesto. Il regista non ha dovuto concordare nulla con le grandi major, Netflix regala libertà creativa (ma quando è esistita mai a Hollywood la libertà creativa!?!), non capendo la futilità dello script. Di sicuro bisognerà tornarci e gli esperti troveranno elementi che il sottoscritto non ha visto. Ma alla prima visione chi scrive si era immaginato tutto un altro lavoro. Sicuramente più pimpante. Ma anche Tarantino ha fatto coincidere il suo film della maturità (C’era na volta…) con il suo film più insopportabile di sempre. I registi non dovrebbero mai maturare, finisce sempre che portino avanti idee sbagliate. Guardare Tesnota (Kantemir Balagov, 2017), per vedere cosa può fare un regista esordiente. L’energia, la solidità, l’espressività, la corrosività. Tutto quello che al Netflix’s Mank manca.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).