Watchmen

In un futuro distopico, nel 1985 negli USA sta per essere approvata una legge che renderà illegale l'attività dei "Vigilantes" mascherati. Quando uno degli Watchmen, il Comico, viene assassinato, Rorschach inizia un'indagine per scoprire chi c'è sotto.
    Diretto da: Zack Snyder
    Genere: fantasy/thriller
    Durata: 162'
    Con: Jackie Earle Haley, Patrick Wilson
    Paese: USA
    Anno: 2009
5.7

Quale forza muove il cinema di Snyder? Che cosa emerge in un film fracassone, rutilante, violento, gore, visivo (e non visionario, perchè tutto è pedissequamente riportato in digitale), erotizzato come Watchmen di Zack Snyder (autore di una sciocchezza divertente quanto inutile come “300”)? Un cinema filo-governativo e bushano. Un cinema che non seleziona nessuna immagine, perchè le mostra tutte senza alcuna aderenza a nessun immaginario.

Nel cinema di Snyder c’è una stilizzazione visiva-emotiva che preoccupa perchè da seguito ad una ideologia in cui il moto è “pesta più forte, verrai ripagato”. Snyder titilla lo spettatore con smargiassate di immagini pesantissime fatte di metallo e sangue, costruendo barocchismi sfrenati tutti ricostruiti in digitale, che irrita per la sua ridicolaggine camuffata da estetica del film “filosofico” sui supereroi. Snyder è un regista intimamente reazionario, riportando indietro il cinema di 20 anni, seduce la forma cinema con un condensato di ultra-percezionalità dello spazio scenico visto come fosse uno spazio vuoto da riempire con esplosioni e scontri che ribadiscono l’inutilità di uno sguardo tanto furbo quanto compiacente. A Hollywood la plastica del digitale ha fatto (e continuerà a fare) solo danni.

Se si cercano delle serie lezioni di cinema si vadano a rivedere i film Pixar, il Che di Soderbergh, lo Star Trek di Abrams. E’ già difficile trovare un senso, una necessità della visione in opere quali Che di Soderbergh e Star Trek di Abrams, figuriamoci nell’antiestetica pauperistica proposta da Snyder, regista compiacente e collaborazionista della causa hollywoodiana, in cui ciò che non è affine alla major non viene accettato. Snyder dimentica che prima di filmare i punti di vista bisogna studiarli e riconoscerli affini ad una visione non programmata precedentemente.

Ma il beneficio del dubbio e delle zone d’ombra non fanno per Snyder, il quale si dissocia completamente da un’idea di cinema problematico, denso di significati e di significante, basata più sulla domanda che sulla risposta. Il risultato è una rassegna di luoghi comuni stratificati e resi tangibili solo dal digitale, emblema lussureggiante e fasullo di un modus operandi che controlla le emozioni dei personaggi/manichini messi in scena, ma non riesce mai a renderne partecipe lo spettatore. Nella lista dei registi che volevano dirigere un film dal fumetto di Alan Moore c’era anche Terry Gilliam, che non riuscì mai a portare a termine il suo progetto. L’anarchia ha perso di fronte alla cupidigia del visivo inteso come campo inerte e monodimensionale. L’anarchia non fa parte del DNA di Snyder. Lo si era già visto in “300”, film in cui l’anarchia (esclusivamente visiva) fa rima solo con rissa e ralenty.