Star Wars: L'ascesa di Skywalker

La Galassia è minacciata da nuove forze che tramano nell’ombra. Rey, ha acquisito definitivamente i poteri della Forza, mentre la Resistenza cerca di sfuggire alla caccia spietata di Kylo Ren. Ma il destino riserverà loro la più difficile delle imprese: il ritorno di Palpatine.
    Diretto da: J. J. Abrams
    Genere: avventura
    Durata: 141
    Con: Daisy Ridley, AdamsDriver
    Paese: USA
    Anno: 2019
6.8

ATTENZIONE: SI CONSIGLIA LA LETTURA DOPO LA VISIONE DEL FILM

La gestione del marchio Star Wars, dopo due capitoli già definitivi come Il risveglio della forza (2015) e L’ultimo Jedi (2017), sarebbe stata dura per chiunque, anche per un esperto giocoliere, amante dei giochi a incastro come J. J. Abrams. Chi ricorda la scrittura pulita, la struttura circolare priva di fronzoli e la direzione classica de Il risveglio della forza (merito in parte della collaborazione di Abrams con Lawrence Kasdan), e la configurazione teorica messa a punto da Rian Johnson per L’ultimo Jedi, forse si sarà reso conto che con l’ultimo capitolo si sarebbero tirate le fila del discorso.

E così è stato. Dopo un inizio concitatissimo che ricorda l’impostazione scenica di Star Trek: Into Darkness (2013), sempre di Abrams, il regista che ha contribuito più di tutti a dare nuovo lustro alla saga creata da George Lucas, inizia il nono episodio della Saga, L’ascesa di Skywalker, con una narrazione equilibrata, basata su dialoghi sommessi, determinando uno scarto decisivo rispetto agli altri capitoli, immettendo nel genere-contenitore dell’avventura il germe dello psicologismo.

Ad ogni scena di dialogo portato troppo avanti si attende con ansia il ritorno della scene d’azione, dirette magnificamente. Il rapporto dei personaggi con lo spazio varia in base alle coreografie impostate. Ciò significa che ogni scena di dialogo fa da corollario al resto. Non è il massimo in un film d’azione, dove le spade laser a volte sono più significative di un silenzio, anche se la descrizione degli spazi scenici, dal deserto al mare in tempesta, sono qui più significative che in qualsiasi altro blockbuster USA.

A J. J. Abrams interessa più che altro la decostruzione del mito in senso classico e la ricostruzione dello stesso in senso ontologico. Ovvero, costruire le figure del mito per ciò che esse sono nella loro reale natura. Questo in sede di sceneggiatura è molto complicato, in quanto ciò che Abrams vuole costruire si scontra sempre con quello che è l’immaginario di riferimento. E non sempre le due cose vanno insieme. Spesso il corto circuito è evidente.

Le coreografie sono la cosa migliore del film, gli scenari che si allargano a perdita d’occhio, mentre il cosmo interiore dei personaggi rimane quasi stucchevole quando Abrams li filma per dargli significato e lustro. Ma era una disputa sulla quale il regista aveva perso in partenza. Fare un film d’azione psicologica è quasi un ossimoro, una contraddizione in termini.

Poi si arriva alle note dolenti, ovvero all’operazione ingrata di terminare la saga, che poi ai tempi del franchising illimitato, significa gettare i semi per la costruzione di una costruzione episodica che non finisca mai. Ed ecco riapparire Palpatine, che non era affatto morto e, come tanti altri personaggi (chi in forma di memoria posticcia come Harrison Ford, chi come discutibile spirito redivivo post mortem, come Mark Hamill), viene riesumato per portare avanti la trama e impostare l’ennesimo duello finale. Così Rey dovrà vedersela con Palpatine per salvaguardare la stirpe dei Jedi e garantire la pace nell’universo.

L’unica cosa che conta in L’ascesa di Skywalker non è che il buono vinca sull’antagonista, ma che la saga venga definitivamente riavviata. Di conseguenza, il personaggio più interessante del nuovo Star Wars, Kylo Ren, viene relegato qui in una sottotrama che avrebbe meritato ben più spessore, la morte finale di Adam Driver è il momento più alto del film e genera una chiusura spaziale, un punto fermo emotivo da cui è difficile scappare.

Mi sono chiesto se con meno zavorra psicologica e con una narrazione più stringata il film avrebbe acquistato più smalto e forza. Forse non c’era altro da fare, tirare le fila del discorso dopo che per due film è stata impostata una conduzione ritmica basata sul mistero e sull’aspettativa, è sempre un lavoro ingrato. La battaglia finale con il Grande Vecchio che muove i fili è da sempre croce e delizia, per ogni creatore di mondi che voglia farsi leader supremo della narrazione spettacolare, all’interno di una macchina produttiva che sfoggi un apparato profilmico (fotografia, scenografia, costumi, make-up) degna del Primo Ordine.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).