Dark City

In un futuro imprecisato la città è controllata da una setta di alieni "gli stranieri". John Mardock non è sensibile al loro potere. Tenterà disperatamente di ritrovare una località chiamata Shell Beach.
    Diretto da: Alex Proyas
    Genere: fantascienza
    Durata: 100'
    Con: Rufus Sewell, Kiefer Southerland
    Paese: AUSTR, USA
    Anno: 1998
7.3

La rivoluzione di Dark City di Alex Proyas non ha fatto proseliti, nemmeno la lezione carpenteriana di In the mouth of madness venne ascoltata. Dark City rimane, come spesso accade per quei “cult” senza padri fondatori, un unicum, una di quelle improvvise deviazioni che non prevedono la gemmazione continua di opere di rilievo. Forse si tratta di un argomento vecchio, fuori moda, una di quelle cose di cui non si parla più da anni, il cosiddetto cyberpunk, l’estetica che produsse classici moderni come 1997: Fuga da New York, Blade Runner, Terminator, Videodrome.

Oggi si vedono film-spazzatura come Nightmare Detective di Tsukamoto (film né bello né brutto, semplicemente deja-vu e anonimo), o il trash della Megan Fox di Jennifer’s Body. Dov’è finita la profondità di campo? Pare che oggi sia appannaggio solo di cineasti come M. Night Shyamalan (Signs, The Village, E venne il giorno) o Christopher Nolan (The Prestige), le cui opere tentano di portare avanti il discorso iniziato da Carpenter e Proyas, ma che producono comunque uno scarto importante. Questo scarto è la definizione di una mentalità che da per scontato il rapporto tra lo spettatore e lo schermo, non ha più bisogno di frapporre al discorso un’immaginario decostruito e poliforme, il cinema di oggi è classico, non utilizza più la forza di un discorso retorico, gli interessa raggiungere immediatamente la dimensione del reale. Il fantasy è bandito, dell’immaginario fantasy c’è solo l’apparato visivo dato dal digitale.
 
Il Signore degli Anelli e King Kong sono delle Opere-mondo che esulano da questo discorso. Per motivi soprattutto produttivi, di budget. Nei kolossal forse il ruolo del digitale si dissimula meglio e in alcuni film importanti neanche si nota, come nei recenti, fondamentali Avatar e Alice in Wonderland, le ultime due perle dell’alta definizione, in cui la fabula (lo western in Avatar, l’impero carrolliano dell’assurdo in Alice in Wonderland) trova la sua perfetta forma in loco all’autorialità dei due cineasti-artisti. Cameron e Tim Burton, facendo un cinema di pura fiaba sono i due registi che nell’era del digitale sono meglio riusciti a dissimulare il proprio immaginario all’interno di un discorso di sovversione anche commerciale del prodotto-hollywood.
 
Di Dark City oggi si ricorda una prospettiva che non ha più motivo di essere messa in discussione, il suo modernariato ha bisogno di una necessità profonda di entrare nel solco dello spettatore che le nuove tecnologie da una parte trasgrediscono a causa di una mancata ricezione del messaggio, per un eccesso di velocità dell’immagine-tempo, da una parte ne restituiscono la bellezza immota.
Resta il fatto che la genialità dell’opera-noir di Dark City riporta il cinema ad essere campo di battaglia per una futura estetica di quel limbo in cui l’immagine è come rarefatta in un’interfaccia di visuale-non visuale, in cui il corpo dell’immagine riflette quello che il fuori campo non mostra.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).