The judge

L'avvocato senza scrupoli Hank Palmer torna al paese natale a causa della morte della madre. Nel frattempo il padre, Joseph Palmer, da 40 anni temuto giudice del paese, viene accusato di omicidio colposo. Hank sarà costretto a rimanere per difenderlo, nonostante i ripetuti scontri con lui.
    Diretto da: David Dobkin
    Genere: drammatico
    Durata: 141
    Con: Robert Downey Jr., Robert Duvall
    Paese: USA
    Anno: 2014
5.6

Ora Hollywood torna all’antico modello del “vertical trial”. La classicità devota allo stile fermo e dimesso, all’emozione pura, al canto del cigno della performance semi-improvvisata. Solo che a dirigere il quadro degli eventi non ci sono Clint Eastwood o Martin Scorsese, e neppure Alexander Payne. Stavolta c’è uno sconosciuto, David Dobkin, cresciuto probabilmente con Anatomia di un omicidio (1959) e Il Padrino (1972). La marca televisiva dello stile di Dobkin (finora paladino della commedia frat-pack: Due cavalieri a Londra,  2 single a nozze, Fred Claus Un fratello sotto l’albero e Cambio vita) non si nota neppure più di tanto, non danno fastidio i primi piani, i campi-contro campi, le soggettive morte sull’ennesimo processo inscenato nella profonda provincia americana. Questo perché con una cast come quello di The judge, Dobkin può permettersi anche di non avere uno stile. Gli basta il cast. Quinid è il cast che dirige il film e lo sguardo del regista, il quale non può far altro che rimanere soggiogato dalla straripante professionalità di Robert Downey Jr., Robert Duvall, Vincent D’Onofrio, Billy Bob Thornton e Vera Farmiga. Il film lo fanno loro, il regista è solo un direttore d’orchestra, come succedeva, d’altronde, nelle epopee classiche del noir anni ’30-’40.

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Lo scontro palpabile, tutto di pelle, tra i due Robert: da una parte l’attore ultra ottantenne, mago di astuzie e consumato dalla gloria della sua stella, mai tramontata; dall’altra la nuova, rampante star dei cinecomix, l’istrione capace di qualsiasi piroetta linguistica pur di rubare la scena. Lo scontro tra i due è talmente violento, catartico, carico di bile da far dimenticate il resto della risibile trama, per altro totalmente deja-vu. E’ un piacere ormai raro vedere Robert Downey Jr. in un ruolo dove non è obbligato a portare una maschera, anche se, alla luce dei fatti, Iron Man (2008) e Sherlock Holmes A Game of Shadows (2011) sono di gran lunga superiori ad un dramma come The judge, la cui equazione estetica non va oltre il ripiego verso il dilemma morale di una famiglia disfunzionale. Da qui si arriva alla semplice conclusione che, se il segreto del grande attore è rendere invisibile la propria tecnica, allora il duello Downey jr.-Duvall assomiglia allo scontro tra due tornado, rendendo The judge un consolidato telaio drammatico su cui i due mattatori si esprimono come non si vedeva da tempo nel cinema americano.

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La performance di Downey Jr. , è bene sottolinearlo, rende un valido esempio di grande recitazione in stile Hollywood: dialoghi taglienti e affilati, modulazione dell’accento e del viso da grande intrattenitore, sguardo scaltro e in perenne sublimazione ironica. Un’altra grande prova della più importante, meticolosa macchina recitativa degli ultimi 10 anni. Il film ha senso solo grazie alla sua presenza, bilanciata dall’alto profilo da squalo di Duvall, sempre al meglio, ogni volta sul punto di incendiare lo schermo con un suo intervento dinamitardo e definitivo.

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Quello che non funziona con la regia di Dobkin è che la presenza dei due attori non riesce a veicolare una trama di senso, che porti le strade narrative a convergere verso un punto teso del “vertical trial”: ci sono molte scene madri, spesso usate in modo tipicamente televisivo, ma non c’è mai la netta progressione verso la follia di un grande thriller. Non si arriva mai al face-to-face rivelatorio e Dobkin si accontenta solo di descrivere un rapporto complicato tra padre e figlio. Alla fine, quando, a conclusione del processo, il verdetto viene letto e si arriva alla sentenza, la tensione si smorza e si torna al punto di partenza, come se 141 minuti non fossero bastati per raccontare l’acido stravolgimento di una famiglia; dove alla fine i finali si accumulano e ci si accorge che un grande cast è stato quasi sprecato per la glorificazione degli umani sentimenti. Dobkin ha dimostrato la stoffa del grande direttore d’attori, ma per dare un senso profondo ai suoi film futuri (come ha insegnato decine di volte Eastwood), per far esplodere la narrazione, ci vorrà un lavoro molto più puntiglioso sia di script che di regia.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).