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Fin dalla sua nascita, per 5 anni, Jack ha vissuto in una piccola stanza di tre metri per tre. Per il bambino il mondo è circoscritto a quella minuscola area. Ma un giorno la madre, rapita e segregata per anni nella stanza, le dice che lo spazio è ben più vasto. L’esistenza di Jack cambia completamente.
    Diretto da: Lenny Abrahamson
    Genere: drammatico
    Durata: 118
    Con: Brie Larson, Jacob Tremblay
    Paese: IRL, CAN
    Anno: 2015
8.7

Un lustro dopo l’uscita del suo romanzo Stanza, letto, armadio, specchio (2010), ispirato al sensazionale caso Fritzl, Emma Donoghue sceneggia e produce il quinto lungometraggio di Lenny Abrahamson, che magari qualcuno ricorderà per il surreale Frank del 2014. Entrambi di origine irlandese, regista e autrice studiano attraverso un film piccolo nello spazio diegetico, e nonostante ciò decisamente autorevole, la convivenza forzata della giovane Joy e di suo figlio di cinque anni Jack, chiuso fin dalla nascita con la madre in un capanno, che il piccolo chiama semplicemente “stanza”, dove la luce del sole, di “cosmo/mondo”, entra sghemba unicamente grazie a “lucernario”, mentre da “porta”, di notte, passa “Old Nick”, che sette anni prima ha rapito Joy chiedendole di soccorrere un cane inesistente.

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Solo “Old Nick” conosce il codice per entrare e uscire da quella prigione, solo lui paga il cibo e le bollette che consentono ai due di sopravvivere, solo lui può permettersi di abusare sessualmente della giovane, ma nemmeno “Old Nick” può osare toccare la creatura più innocente di tutte, quella che non sa distinguere un cartone animato dal mondo reale, che dorme in un armadio e urla per farsi sentire dagli alieni, che non sa credere a colei che, impotente di fronte la naturale immaturità di lui, gli aveva fino allora mentito su quasi tutto, per difenderlo, per dare a “stanza” e agli oggetti inanimati che essa conteneva una logica e un ordine che non fossero semplicemente frutto di una esistenza folle e degenerata, orribilmente macchiata di egoismo, di somma, insensata cattiveria.

Ma quando noi invisibili spettatori giungiamo ad osservare il loro grigio vivere, il tempo che Jack ha passato in quel microcosmo minimale è diventato davvero troppo: la sua età non può più concedergli un tenore simile, il suo stesso futuro deve mutare, subito e per sempre. E così, messo in atto un piano di fuga che nel compiersi arriva a trasmettere una tensione drammaturgica apicale e purissima, scevra da qualsiasi irrealistica artificiosa costruzione, proprio grazie ad un altro “uomo col cane”, il primo estraneo di sempre, il protagonista si salva, e soccorso dalla polizia riesce a comunicare le coordinate bastevoli a trovare il luogo della reclusione e liberare Joy.

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Uscito dal guscio, il “pulcino” ha tutto da provare, tutto da conoscere, però non immediatamente: ogni cosa sembra essere infatti composta di un’altra materia, di un’altra luce, di un altro suono, può essere nociva, può apparire paradossalmente più discosta di quanto non lo sia mai stata, e per questo motivo da tenere a debita distanza, instaurandoci un’appena accennata comunicazione solo tramite la madre che, tornata ad una così incompatibile quotidianità, è costretta pure a misurarsi con, appunto, l’isolamento perdurante del figlio, col suo radicato desiderio di tornare dentro “stanza”, a scontrarsi con l’ostile freddezza del padre e l’invadenza della stampa e dei media, i quali, alla spasmodica ricerca del “sensational”, non esitano a piegare i soggetti e i loro vissuti alle esigenze delle videocamere. A questi stati di eccitabilità si aggiunge da questa parte dello schermo, come un fantasma, il soffuso timore di un (impossibile) ritorno del carceriere.

Dall’ouverture all’epilogo di questo kammerspiel, l’allora 25enne Brie Larson, oggi detentrice tra gli altri premi di un Oscar, un Golden Globe, un BAFTA e un Independent Spirit Award, ha avuto il pregio di dare vita ad un personaggio autentico, spogliato di qualsiasi vezzo, sgraziato ed essenziale (e in questa prospettiva accostabile alla Ree Dolly di Jennifer Lawrence in Un gelido inverno, 2010), corroso dall’incapacità di apprezzare l’aria di riconquistata libertà, cedevole a crisi che lo stesso Jack, meglio dei medici e degli altri familiari, sa esorcizzare.

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Ugualmente lontano da qualsiasi orpello divistico ed assai espressivo nella sua verde interpretazione è Jacob Tremblay, “miglior rivelazione” in diversi festival e vero fulcro della narrazione, nonostante sovente nei mesi passati lo si sia voluto etichettare come “non protagonista”. Suo tramite si ha accesso alla visione infantile degli accadimenti, in un processo che a tratti potrebbe anche rievocare lo stato di calda accoglienza rinvenibile in Fanny e Alexander (1982), seppure contestualmente quanto mai privo di magia; la sensazione è amplificata in particolar modo nella seconda parte dello sviluppo, in seno alla tranquilla ordinarietà della vita nella nuova abitazione, caratterizzata da contatti minimi col mondo oltre le mura, garantita nella sua quiete su tutti dal nuovo compagno della nonna, l’unico personaggio che sembra fin da subito saper ospitare Jack e i suoi silenzi. Forse, come se l’è meritata la giovanissima Quvenzhané Wallis per Re della terra selvaggia (2012), gli sarebbe altresì stata pertinente una nomination, accanto a quelle per il film, per la “regia ad immersione” (com’è stata definita) di Abrahamson, sensibile a riprese discrete e vibranti, e per la Donoghue.

A proposito dell'autore

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Classe 1995, in anni recenti si è incontrovertibilmente innamorato del cinema, interessandosi a qualunque genere di qualsiasi epoca, ma senza mai perdere la bussola della qualità artistica. Frequenta il DAMS a Padova e cura un suo canale YouTube di critica cinematografica, "Il taccuino del giovane cinefilo".