La legge del mercato

Francia, tempo presente. Dopo essere rimasto disoccupato per 20 mesi, il cinquantenne Laurent, trova lavoro come addetto alla sicurezza di un supermercato. Un giorno gli viene affidato il compito gravoso di spiare i propri colleghi.
    Diretto da: Stéphane Brizé
    Genere: drammatico
    Durata: 93
    Con: Vincent Lindon, Karine de Mirbeck
    Paese: FRA
    Anno: 2015
6.6

Il settimo lungometraggio di Stephan Brizè è l’amaro ritratto di una realtà precaria, pervasa da infelicità e disillusione, nella quale si sopravvive, più che vivere e ogni vissuto interiore, reazione spontanea, istinto primario, perde priorità e viene coperto e prevaricato dalla necessità di dover ricoprire un ruolo, di interpretare il surrogato di sé stessi adeguato al contesto, quello che consenta quantomeno di mangiare e avere un tetto sopra la testa, quando va bene.

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Una dimensione nella quale a un individuo che necessita e spera di ottenere il suo piccolo spazio nella società, viene richiesto spesso e volentieri di annullarsi, il prezzo da pagare è rinunciare alla propria naturalezza, sacrificare la propria identità, a favore di cosa è più conveniente mostrare di sé per poter essere adeguati a questo mondo.

E allora non va bene il tuo tono di voce, né il volume della tua voce, non va bene la tua postura, non va bene il modo in cui saluti, in cui rispondi, non va bene il modo in cui ti presenti, né di persona, né per iscritto.

Perché per andar bene devi apparire vincente, accattivante, dinamico, brillante.

Devi trasmettere leggerezza, devi essere gioviale e simpatico.

E devi apparire così anche se dentro hai la morte, se sei triste come la notte, quando sei trafitto dall’angoscia di non farcela, dovresti sorridere e avere una voce squillante , motivata e propositiva, mentre hai appena venduto la macchina pur di restare a galla, e non sai se riuscirai a non dover vendere anche la tua casa, l’unica cosa che possiedi, o a mantenere la tua famiglia.

Pare un’anima in pena Thierry, dimesso, stanco, l’espressione del viso perennemente triste, che a 51 anni, dopo aver perso il suo lavoro, riesce a stento a trovarne un altro che gli consenta di rimanere in piedi, di mantenere un figlio disabile agli studi, di arrivare alla fine del mese, non di più.

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Tutto scorre per inerzia, più per rispondere all’esigenza di resistere e non soccombere, per mantenere un minimo di stabilità, per sopravvivere, che non per nutrire il proprio essere e attingere alla propria linfa vitale, che piano piano si esaurisce.

E i giorni si succedono uno dietro l’altro, monotoni, pesantissimi, la messa in scena e la modalità con la quale Brizè segue da vicino i movimenti del suo protagonista, rendono perfettamente questa apatia, una immobilità claustrofobica che dà una sensazione simile a quella di trovarsi insieme a lui sulle sabbie mobili.

Una condizione in cui è un miracolo trovare degli stimoli, degli slanci propri, dove la vitalità viene meno, prosciugata dal consumo di energia necessario per adeguarsi, per sgomitare, per esistere.

E in tutto questo, Thierry riesce a trovare la forza d’animo per andare a prendere delle lezioni di ballo con la moglie, ci prova, anche senza entusiasmo, con la poca energia che ha, pur privo dello spirito e dello slancio che conferiscano ai suoi movimenti l’elasticità e la fluidità necessari per divertirsi e goderne, ma lo fa. Commovente, forse la scena più bella, quella in cui Thierry condivide il risultato delle lezioni prese con la sua famiglia, finendo a ballare tutti e tre insieme, unico momento di respiro in cui si consente di esserci, di lasciare quell’inerzia e non farsi trascinare dall’alienazione, anche se anche in questo caso, è evidente come la preoccupazione non lo abbandoni mai del tutto.

Scene di verità, verità che viene mostrata e descritta efficacemente, senza mai scadere nel melodramma, ma che colpisce in tutta la sua ineluttabilità.

L’aver trovato un nuovo lavoro, costringe Thierry a vivere situazioni in cui deve controllare, e a volte umiliare, persone che hanno le sue stesse difficoltà, le stesse frustrazioni, che vivono una quotidianità in salita, quanto, se non più della sua.

È un mondo talmente ingiusto da permettere che in una situazione così precaria, possano presentarsi immancabili avvoltoi, capaci di succhiare dove non è rimasto quasi niente.

E non c’è da stupirsi se in queste condizioni, c’è chi non ce la fa e arriva a compiere gesti estremi.

E la tragicità non sta nemmeno nella gravità del gesto, quanto nel fatto che anche quello diventa ordinario, plausibile, perde addirittura la sua valenza attiva, che seppur si tratti di un’azione terribile, lo caratterizza, e viene inglobato in quella sorta di abulica staticità.

Brizè cavalca una tematica sempre florida, affrontata soltanto un anno prima dai connazionali fratelli Dardenne, con il bel Due giorni, una notte.

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A distanza di un anno, la crisi economica e le sue ripercussioni restano purtroppo assolutamente attuali, costituendo materia di ispirazione e di identificazione ormai da tempo e chissà ancora per quanto.

Così, anche se non si tratta di un tema particolarmente originale, complice una più che buona prova recitativa e una messa in scena asciutta e incisiva, il prodotto finale è una visione appagante.

Il merito di Brizè sta soprattutto nell’essere stato capace di far trasparire dalle movenze, dalla mimica, dall’aspetto trascurato e dimesso di un individuo, tutta la frustrazione di chi vive una condizione così instabile e angosciante, e di trasmettere molto bene l’atmosfera di una dimensione lenta, asfittica, nella quale ci si muove a fatica.

L’attore stesso, ha dichiarato di trovare nella gestualità e nei movimenti, la chiave per entrare nei suoi personaggi e renderli credibili ed efficaci.

Vincent Lindon, offre ancora una volta un’ottima interpretazione, che gli ha valso il premio come Miglior Attore al Festival di Cannes, unico attore professionista in un gruppo di attori non professionisti, il che, lungi dal rendere il film meno pregevole, ne incrementa il valore quasi documentaristico.

Avendo già lavorato due volte insieme, tra Stephan Brizè e Vincent Lindon si è creata un’utile complicità ai fini del risultato finale.

La legge del mercato è un film che ha avuto un bassissimo budget, le riprese sono durate 16 giorni e i due hanno rinunciato al loro compenso per poter pagare tutti i partecipanti.

A proposito dell'autore

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Appassionata di cinema da sempre, tanto da considerarlo un fedele compagno di vita e una malattia ormai felicemente incurabile e irrecuperabile. Ha sempre inserito questa grande passione nel suo lavoro di psicoterapeuta, utilizzando il cinema come vero e proprio strumento terapeutico, scrivendo una tesi e articoli scientifici a riguardo e effettuando sedute di cinematerapia sia individuali che di gruppo. Ha collaborato e collabora con diverse riviste, come Cinefarm, Cinematografo.it, Artnoise.