Joe

Provincia americana, tempo presente. Joe è uno strano uomo, solitario, alcolizzato, con alle spalle un divorzio. Joe lavora tutto il giorno in una foresta dove abbatte gli alberi. Un giorno incontra il quindicenne Gary che vive con un padre violento. Joe decide di prendersi cura del ragazzo.
    Diretto da: David Gordon Green
    Genere: drammatico
    Durata: 117
    Con: Nicolas Cage, Tye Sheridan
    Paese: USA
6.9

La ruvida e dolente ballata southern di David Gordon Green tanto corretta, priva di sbavature nella forma, quanto derivativa, quasi archetipica nella sostanza, popolata da perdenti dal cuore tenero, padri ubriaconi brutti, sporchi e cattivi, e figli cresciuti troppo in fretta che cercano in tutti i modi di scrollarsi di dosso la polvere e il fango di un’esistenza ai margini, senza sbocchi, è l’ennesima dimostrazione di come il cinema americano, certo cinema perlomeno, faccia fatica a sganciarsi da certi stilemi, da quell’immaginario che oramai risulta, perlomeno a noi, privo di interesse perché già visto troppe volte, già abbondantemente sviscerato.

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Joe ha al suo centro l’ennesima esistenza viziata, lercia e autodistruttiva di un padre che ricade inevitabilmente sui figli, i quali cercano in tutti modi di schivare i macigni che cadono loro addosso continuamente, che cercano in tutti i modi di scrollarsi di dosso il sudicio polveroso delle baracche a cui pare debbano adattarsi.  Il film di Green mette in scena un mondo dove l’unica ancora di salvezza pare essere il lavoro, anch’esso duro e polveroso dei campi attraverso cui il giovane protagonista (Tye Sheridan) acquista un’identità e quella dignità di cui la sua disastrata famiglia tenta in tutti i modi di privarlo; un lavoro che gli viene dato da un uomo, il Joe del titolo (Nicholas Cage), classico anti-eroe, loser dal cuore tenero, che prevedibilmente prenderà a cuore il ragazzo, e assumerà il ruolo di padre…

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Joe è l’ennesima riproposizione di certo cinema visto anche di recente, come Shotgun Stories e Mud, entrambi di Jeff Nichols, che fatica a trovare la sua ragion d’essere, che sembra ribadire le stesse cose senza alcun piglio che lo renda diverso o complemento di qualcosa, con al centro personaggi talmente archetipici, che diventano quasi delle macchiette di tutti quelli che li hanno preceduti a dare vita ad una storia di violenza, l’ennesima, che già in partenza sembra avere il fiato corto, che già dall’attacco o poco più si capisce dove voglia a andare a parare.

A proposito dell'autore

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Ha fatto e fa cose che con il cinema non c’entrano nulla, pur avendo conosciuto, toccato con mano, quel mondo, e forse potrebbe incontrarlo di nuovo, chi lo sa. Potrebbe dirvi alcuni dei suoi autori preferiti, ma non lo fa, perché non saprebbe quali scegliere, e se lo facesse, cambierebbe idea il giorno dopo. Insomma, non sa che dire se non che il cinema è la sua malattia, la sua ossessione, e in fondo la sua cura. Tanto basta.