Emanuelle nera

Durante un viaggio in Africa una coppia ospita una bellissima ragazza nera. La condotta della ragazza è libertina e non tarderà ad offrirsi a chi più le aggrada.
    Diretto da: Bitto Albertini
    Genere: drammatico
    Durata: 96'
    Con: Laura Gesmer, Karin Schubert
    Paese: SPA, ITA
    Anno: 1975
4.4

Per parlare di Emanuelle nera di Albert Thomas (pseudonimo di Adalberto Albertini), si potrebbe scomodare, e riadattare, la ganza ermeneutica di Quentin Tarantino sul brano Like a Virgin di Madonna, allorché ne Le iene lo stesso regista, interpretando Mr. Brown, spiega così la nota canzone: “Parla di una ragazza che rimorchia uno con una fava così! Tutta la canzone è una metafora sulla fava grossa”.

Ecco, Emanuelle nera, a prima vista, è un film di abbordaggi e fave grosse. Eppure, non ci sarebbe nemmeno bisogno di accreditare l’opera di Albertini al filone degli sdoganamenti degli ultimi anni, dacché già all’epoca (1975) il New York Times ne scrisse positivamente: “Girato con vera maestria, anche le scene più erotiche assumono un notevole valore artistico”. Peraltro, aggiungendo una sorta di “rispetto critico” all’ampio, e prevedibile, consenso dei botteghini, calamitati dalla chiassosa pruriginosità del prodotto.
L’anno prima era stata la volta di Emmanuelle, rigorosamente con la doppia “m” labiale, diretto da Justin Jaeckin con Sylvia Kristel a prestare il carisma delle forme, a partire da un romanzo di Emmanuelle Arsan. Nei capitoli successivi.
Gola profonda era uscito da 3 anni. Laura Gemser, l’attrice indonesiana che impersonò Emanuelle nera, prolungherà la propria fama in altre 5 pellicole della serie, a firma di Joe D’Amato, con una dose accresciuta di ormoni ed adrenalina per via delle iniezioni porno-soft ed orrorifiche d’avventura. Una serie in qualche modo “speculata”, non c’è dubbio. Ma anche su cui “speculare”, nel senso delle masturbazioni critiche, almeno riguardo agli esemplari più seducenti dal punto di vista cinematografico.
Quello di Bitto Albertini rientra a buon diritto in questa stanza delle proiezioni private, da forzare col grimaldello: una visionarietà erotica che merita due righe, o giù di lì, in rilassata riedizione interpretativa a sponda di letto. Trama scarna, svolgimento carnoso. Mae Jordan, detta Emanuelle, è una fotoreporter di colore, attesa a Nairobi da una coppia di ricchi bianchi, Gianni (Angelo Infanti) ed Ann Danieli (Karin Schubert). S’invaghisce di Gianni, ma ci gioca al tira e molla tra safari, reportage, feste e divagazioni lesbiche.
Emanuelle nera è un film, nel quale le caratteristiche abbreviature erotiche per cui, dal nulla, si piomba tra le lenzuola, fanno dell’opera una sorta di caccia grossa dello sguardo, continuamente inappagato della propria preda. Il corpo è al centro della pulsione, come dell’immagine, in un’equivalenza fisicissima con gli afflati di libertà: per Emanuelle, la liberazione degli istinti è, tout court, una liberazione.
Il rituale del suo corpo si affianca a quello “sociale”, e lo rimpiazza: la scena in cui Emanuelle assiste alle danze della tribù africana e, come invasata, vi si unisce, si spoglia e si concede ai maschi del gruppo, è per certi versi una metonimia del film, una parte per il tutto.
L’intero film, infatti, ha un andamento implicitamente liberatorio, orgiastico. Sono tre le tracce “di rossetto” da cui evincerlo, senza timore di sconfessare il “teorema della fava grossa”, per cui il film altro non sarebbe che una reazione , o erezione, a catena.
La prima è la scena in cui Gloria (Isabelle Marchal), nel party “africaneggiante” a bordo piscina, si spoglia e si unisce alle danze, anticipando, in figura, l’orgia di Emanuelle con gli indigeni: ma è un coito interrotto, non concludendosi con la copula, come è plausibile che succeda in un contesto vizioso, ma ancora incatenato alla civiltà. La seconda è il sogno di in cui Emanuelle si vede inseguita da un membro, pardon, un componente della tribù: per quanto “americana”, è come inseguita dalle proprie origini, se queste significano, rispetto alla civiltà a cui appartiene, una liberazione dal ceppo sociale.
La terza è l’orgia con la squadra di cricket in treno: Emanuelle trascorre, come in un viaggio interiore fattosi brivido della pelle, dalle remore iniziali (alle avances dei giocatori risponde intimorita, come a rigettare uno stupro) alla pura libertà.
Laddove, si noti, non aveva avuto esitazioni con la tribù: “Quella non ero io”, dirà dopo. Come a dire: nel contesto sociale la propria identità, sessuale e non, viene soffocata. Ma sarebbero cazzi amari se

un film del genere ricadesse, nell’alcova critica, da un eccesso di testosteroneprogesterone, alla dissolutezza opposta: l’eccesso di materia grigia. Emanuelle nera è un film sì per ormoni e dintorni, così come, volendo, per la testa; ma è anche e soprattutto un film di divertito estetismo, di voyeurismo insistito. E tutto si tiene, beninteso: anche qui possiamo citare un paio di scene a supporto.

La sequenza in cui Emanuelle fa un sogno erotico ed inizia a toccarsi, per poi svegliarsi dal sonnambulismo e ritrovarsi a due passi dalla stanza in cui Gianni e la moglie stanno facendo l’amore, è solo una delle tante in cui ricorra l’elemento “onirico”, che conferisce al film l’aspetto di un’allucinazione erotica: “spiando” la coppia, la fotoreporter riprende ad eccitarsi, ma questa volta da sveglia; e non è un caso che l’orgia finale del treno si scatena dopo il risveglio da un sonnellino.
Similmente, la coppia formata dal giardiniere e dalla cameriera, rigorosamente non-americani, comincia a fornicare nell’erba dopo aver spiato l’amplesso lesbo a bordo piscina tra Emanuelle e Gloria: si liberano, cioè, attraverso lo sguardo, ed annullano nel sesso la distanza sociale. Scopano neri e bianchi, poveri e ricchi, servitori e padroni: dall’inconscio, alla rivoluzione sessuale, a quella sociale. Sembra l’iter del Surrealismo: e non è un caso che nel cast compaia un bislacco personaggio, un artista, dall’aspetto molto simile a Dalì… Emanuelle nera, dunque, ma con molte sfumature.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".