Adoration

Uno studente di Liceo, Simon, si inventa una storia mai accaduta riguardo al suo passato, divulga la storia in classe e su internet, dove una massa sempre maggiore di persone inizia a credergli.
    Diretto da: Atom Egoyan
    Genere: drammatico
    Durata: 100'
    Con: Devon Bostick, Rachel Blanchard
    Paese: CAN
    Anno: 2008
6.8

Per poter organizzare l’esperienza e la conoscenza abbiamo bisogno di narrare la nostra e l’altra quotidianità.Per diramare un dispaccio plausibile al di sopra di tutta questa congerie di informazioni, frammentazioni, sensazioni e dimenticanze, dobbiamo raccontare.
Se questo era il succo di un famoso saggio che spopolò all’inizio degli anni ’90 (The narrative construction of reality, di Jerome Bruner), è invece per Atom Egoyan, nel film Adoration (2008),  il nucleo di una riflessione sulla pratica e l’autenticità della produzione di questo discorso predominante: la verità del dettato della memoria soggettiva e di quella collettiva contro ogni deviante feticizzazione.

Ancora una volta, il regista indaga su più livelli, su come possiamo raccontare le disfunzioni, i segreti inconfessabili all’interno di una famiglia, di una comunità (come ne Il dolce domani) e al contempo sui movimenti interiori che compongono queste intermittenze e nevralgie.
L’onestà del suo cinema risalta nello script; non si omette nulla della cosmogonia di reperti sociali, religiosi e politici che circondano e conducono la precarietà dei protagonisti in gioco, e rispetto ai film del passato (Exotica, Il viaggio di Felicia, False verità) dove più linee narrative, più versioni individuali della vicenda si palesavano, Adoration persegue in maniera meno errabonda la vena principale.
La trama, la messa in scena, la colonna sonora e la fotografia concorrono ad un’esposizione salda delle idee, con un taglio preciso e necessario. Eppure non manca una sottile inquietudine.
Tutto il film è attraversato da una sensazione di pericolo, di crollo imminente della realtà, per come essa ci è stata servita, registrata e preconfezionata.
Su questo punto credo lavorino in simbiosi due elementi mai completamente inscindibili del regista armeno-canadese: l’abilità artigianale di Egoyan nel tessere trame in difetto visivo, che puntano sull’assenza di informazioni e successivamente sul loro lento disvelarsi (tecnica appresa e sperimentata anche nelle collaborazioni per serie TV come Alfred Hitchcock Presents e Venerdì 13), e la sua tensione principale: l’investigazione sui dispositivi di apprendimento della memoria e della realtà.
Il contraddittorio continuo, spesso irrisolto, tra il documentare e preservare le nostre esperienze in archivi digitali (video/foto/sms/chat/social) e la memoria umana, piena di falle e patologie, ma senza il limite di non poter essere riconfigurata in rapporto allo scorrere del tempo e alle nuove informazioni.
Lo schiudersi di una verità, la sua epifania, nel film avviene attraverso lo stimolo tattile del riccio in legno di un violino e un racconto orale, diversamente da alcune opere precedenti in cui i supporti tecnologici erano la chiave di volta.
Una dichiarazione di imparzialità del regista, un far cinema super partes, lontano da un’ideologizzazione farsesca.
Egoyan sembra quasi consegnare a ciascuno dei suoi protagonisti principali rituali specifici nello spogliare il corpo della vicenda, come ai Re Magi (che nel film detengono un ruolo simbolico fortissimo) è concessa la diversificazione dei regali. Simon (un intenso Devon Bostick) è la terra di mezzo, la nuova geografia.
L’agnello sacrificale dei nuovi stimoli tecnologici che sa ribaltare la percezione degli eventi grazie alla bellezza e alla forza dell’arte. Tom (Scott Speedman), lo zio, è l’anima sensuale della vicenda, uno strumento che si regola e mimetizza a seconda del tempo, degli eventi, dell’umore. Sabine (Arsinée Khanjian, nella realtà moglie del regista), la professoressa, è la memoria dell’umanesimo, la forza pedagogica della letteratura e l’astuzia del teatro.
Se proprio si volesse trovare un piccolo neo a quest’opera così matura, bisognerebbe puntare la lente d’ingrandimento sull’eleganza formale leggermente rigida della messa in scena. Una classicità che non aderisce completamente alle increspature e interferenze delle versioni e dei linguaggi.
Ma Egoyan probabilmente persegue una sintesi di cinema che non abbia il timore di declinare e invecchiare, e questa, congiunta alla speranza di un’armonia del narrato che investa le nostre diverse esperienze, la rivelazione di un canone universale per raccontarle (“Il tormento può dileguarsi.
La guarigione può incominciare. Possiamo tutti riposare in pace” diceva un personaggio de Il viaggio di Felicia), è la sua forza peculiare.