War Horse

Albert, figlio di contadini nell'Inghilterra a ridosso della Prima Guerra Mondiale, addestra il cavallo Joey ad arare. Quando scoppia il conflitto, i due si separano ma Albert promette al cavallo che un giorno si ritroveranno.
    Diretto da: Steven Spielberg
    Genere: guerra
    Durata: 146'
    Con: Jeremy Irvine, Peter Mullan
    Paese: USA
    Anno: 2011
6.5

A cosa serve oggi War Horse di Steven Spielberg? Si tratta di un ritorno alla classicità perduta? Un omaggio ai maestri Fleming, Ford, Kurosawa? Un ritorno agli antichi valori dell’eroismo, della virilità, dell’amicizia, dell’onore?

Spielberg spariglia le carte come suo solito, sbalestrando lo sguardo, imponendo la sua etica-retorica della famiglia come nucleo valoriale, cui tutto si collega. Spielberg torna con War Horse ad insegnare l’estetica del cinema come narrazione pura e, dal punto di vista estetico, fa apparentemente pensare ad un ritorno alle origini simile a quello che fece Baz Luhrmann con il suo Australia (2008), in cui descrisse la più canonica delle love story sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Là però c’era il tentativo di utilizzo di un immaginario quintessenziale kitsch e sovrabbondante, essendo Luhrmann cineasta dell’accumulo e del sovraccarico emotivo, cui mancava però la traiettoria di una dissimulazione che rendesse il tutto convincente, cosa che invece a Spielberg riesce alla perfezione, nonostante la cornice western fortemente classicista e forse risaputa.
Infatti lo sguardo di Spielberg è più limpido e pacato, longilineo, catalizzante uno stile che non straborda mai. La struttura narrativa di War Horse fa venire in mente quella di Salvate il soldato Ryan (1998), war-movie fordiano per rassegnazione ad una retorica patriottico-individualista, che operava da scarto mimetico tra la frontalità apocalittica di The Jaws (Lo Squalo, 1975), e l’intimismo lirico di Schindler’s List.
War Horse indirizza lo sguardo verso riferimeti alti, improntando la messa a fuoco dell’epica verso una linearità di sguardo, e ad una chiarezza espositiva in cui l’autore di E.T. riesce ancora ad innestare il germe di una sperimentazione ardita, quella che in Spielberg si vede sempre più di rado, e che fu tentata dal regista solo in Minority Report, vera e propria “sonda emotiva” di ricordi impalpabili, che metteva in guardia dalla terrificante egemonia dell’informazione come atto contundente in una società dove vigeva uno stato di polizia.
In Minority Report non veniva incriminato chi commetteva un delitto, ma chi aveva anche solo l’intenzione di commetterlo. Veniva mostrato, in soldoni, un sistema grazie al quale si sarebbero scovati i colpevoli senza neanche dover piangere vittime. Un sistema infallibile che veniva incrinato da un poliziotto che ci lavorava.
In War Horse Spielberg predilige la semplicità di tocco e la lentezza espositiva, l’emozione pura che si risolveva sempre in raccordi ellittici viranti al classicismo, attraversato sempre da ombre messaggere di morte e da primi piani di matrice televisiva (tutto il cinema di Spielberg può essere considerato come un esempio di raffinatissima televisione filmata) ma tendente sempre al cinema-cinema, basandosi su uno sguardo che si perde tra le vallate inquadrate con stupore, a ricordo di un certo cinema fordiano da cui, a quanto pare, Spielberg non può esimersi dal tornare.
In tutto il troncone narrativo di War Horse vige un desiderio intrinseco di tornare alle origini, ma stavolta il patetico è sorretto da una vera impalcatura di suggetioni che si sposano a meraviglia con l’intero quadro.
War Horse è la semplicità che si sublima nel tempo della visione.
La peculiarità di War Horse, come discorso relativo al passato di un cinema che non c’è più, si può definire in quanto rappresentazione del mito fondativo della frontiera, l’obiettivo da raggiungere, nel cammino da perseguire per ripristinare un collegamento emotivo con il valore della scoperta, e con la consapevolezza del rito iniziatico come disvelamento del mondo. Il rito iniziatico alla vita è quello attraversato dal protagonista, che si ritrova in guerra per ricongiungersi al suo cavallo e tornare così da adulto alla casa madre: in questo il cinema di Spielberg mostra tutta la sua evidenza morale a autoriflessiva.
War Horse si apre e si chiude nella casa madre che, all’interno della vallata-fiume, assumendo il valore di feticcio familista verso cui il protagonista tende per ritrovare se stesso e le proprie radici. Così nel cinema di Spielberg, i drammi della seconda guerra mondiale lasciano spazio a una edulcorazione fiabesca che allo stesso tempo sconcerta e avvolge, per naturalezza espositiva, attraverso l’intemperanza di un calco classico che ripristina quella volontà di trasformare il campo minato dell’avventura in una concatenazione armoniosa di eventi che simulano la perfezione del cinema.
Nel cinema di Spielberg il sentiero imboccato dal protagonista insieme al suo cavallo porta alla fine del tunnel della guerra, dove il tramonto infuocato funziona da “quiete dopo la tempesta”, agendo da simbologia di ricongiunzione di Dio agli uomini, facendo risuonare la campana della giustizia contro gli orrori della guerra, come un mantra che forse in pochi oggi avranno l’ardire di stare ad ascoltare per l’ennesima volta, preferendo, magari, contaminazioni stilistiche più ardite e meno risapute.
Ma va anche considerato che per Spielberg stavolta il cinema sembra essere tornato un banco di prova, all’interno del quale far risuonare la grancassa del motivo stilistico che porti alla riconferma di un modello classico riproposto con riconoscenza e devozione cristalline.
Arrivando a distillare una retorica simbolista in cui il futuro del cinema appartiene ancora una volta al passato.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).