La Tigre e il Dragone

La spada magica del Maestro Li Mu Bai, custodita da Shu Lien, viene rubata da Yu, la figlia ribelle del governatore. Li Mu Bai dovrà vedersela con Yu riavere indietro la potente spada.
    Diretto da: Ang Lee
    Genere: avventura
    Durata: 120'
    Con: Zhang Ziyi, Chow Yun Fat
    Paese: TAIW, HK
    Anno: 2000
7.3

Ang Lee, il regista del pluri premiato La Tigre e il Dragone, deve essere un cineasta molto difficile da digerire per i critici italiani. Strano, non sembrerebbe, eppure i suoi film, a differenza di quelli dei più blasonati Hou Hsiao-Hsien o Jia Zhang Ke e Tsai Ming Liang, sono tra i meno compresi, i più bistrattati e, a dir la verità dei fatti, i film più premiati degli ultimi 15 anni.

Ang Lee ha vinto quasi tutto: due volte l’Orso d’oro a Berlino, due volte il Leone d’oro a Venezia, persino due volte il premio Oscar per la miglior regia, mai successo per un regista non occidentale.
Quasi tutti i suoi film trovano sempre un largo, se non larghissimo, consenso nel pubblico e, tra i suoi film, La Tigre e il Dragone è quello che sintetizza al meglio le caratteristiche estetiche di questo cineasta così pronto ad intercettare le corde emotive di ogni storia da lui raccontata.
Con La Tigre e il Dragone il regista di Taiwan è alle prese con un genere che Sud-Est asiatico ha una lunga tradizione e di cui uno dei maggiori esponenti è Tsui Hark, come ad esempio nel film The Blade (1995), una originalissima e spericolata dimostrazione di talento balistico, nel raffigurare e sperimentare balletti e messe in scena della violenza e della morte cui lo spettatore occidentale, abituato magari a Sergio Leone e Peckinpah, non è abituato.
Difatti, La Tigre e il Dragone fa esplodere la struttura semantica del mélo classico all’interno di una impostazione grafica votata all’eccesso e al mantenimento di uno stato sospeso della coreografia.
Ang Lee fa, in questo modo, cinema puro. Ma lo spettatore, abituato alla ben più netta dicotomia buoni/cattivi del modello americano forse non ci fa neanche caso, ed è come se questa cosa passasse sotto traccia, nella percezione di un registro comunicativo che adopera lo strumento di una dialettica sottintesa tra es ed epos.
La Tigre e il Dragone dunque è troppo fuori dalla coordinate occidentali, ma soprattutto italiane, per essere goduto appieno, certo se si pensa all’ennesimo scempio verificatosi con il doppiaggio italiano che banalizza l’originale mandarino, si può capire facilmente che il film che si sarà costretti a vedere sarà un altro. Non è un problema da poco. la raffinatezza delle sequenze d’azione, il temperamento ribelle di Jen Yu (Zhang Ziyi), le espressioni d’immobilità meditativa di Michelle Yeoh e Chow Yun Fat, con l’italiano si travisano completamente.
E’ un film puro e arioso, determinato e inarrestabile La Tigre e il Dragone, la sua tenacia comunicativa coccia con il suo temperamento schietto e aristocratico, inabissando il contenuto elevato all’ennesima potenza, in una rappresentazione della morte che ricorda un Kurosawa più rappacificato, come se la danza dei corpi fosse un monito di inarrivabile, robusta sete di vittoria sulla morte che incombe, nei templi, nel tempo che risucchia queste figure già così fuori dal tempo.
Ang Lee dimostra già in questo film, come poi ripeterà mirabilmente nei successivi I segreti di Brokeback Mountain e Vita di Pi, (per chi scrive il suo secondo miglior film dopo La Tigre e il Dragone) di sapere scegliere la giusta inquadratura, di avere un profondo rispetto per i personaggi messi in scena, di far fronte sempre al problema della credibilità di ogni situazione e di restituire al pubblico un’esperienza di cinema che sia sempre comunque aperta al mondo e al pubblico.
Mai prendere il pubblico per un infante da imboccare a suon di didascalismo, Ang Lee conosce questa regola e l’applica a dovere.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).