Probabilmente Martin Scorsese aveva bisogno di realizzare The Wolf of Wall Street. Un regista che necessitava di dare agli altri ma soprattutto a se stesso una risposta, per dimostrare a se stesso di essere capace dire ancora qualcosa d’importante.

Non si può non notare che a partire da Gangs of New York (2002), anche gli scorsesiani più integralisti hanno cominciato a storcere il naso, per un regista che ha cercato di rinnovarsi attraverso un cinema titanico, nelle misure e nei desideri del racconto.

Uno Scorsese che dall’inizio degli anni ’00 aveva tentato strade diverse dalla sua visione di cinema precedente, alcune di queste decisamente notevoli (il già citato Gangs of New York e il sottovalutato The Aviator), ma che hanno incontrato anche diversi ostacoli nel rapporto con il pubblico e con la critica.
Dallo scialbo remake The Departed Il bene e il male (2006), all’esercizio di stile di Shutter Island (2010), fino alla favoletta di Hugo Cabret (2011). Appare chiaro quindi che The Wolf of Wall Street è una reazione personale ma soprattutto nostalgica da parte di Scorsese, che riporta a quel suo cinema pieno, circolare, difficilemnte criticabile, come Quei Bravi Ragazzi (1990) e Casinò (1995).
Una reazione che sembra aver funzionato, ma anche profondamente diviso: funziona per chi voleva il “vecchio” Scorsese, quello “dei capolavori anni ’90”, ma che lascia l’amaro in bocca a chi voleva quel regista forse sbagliato, forse imperfetto ma che aveva voglia di osare.

The Wolf of Wall Street pone degli interrogativi interessanti su quale sia il nostro rapporto con un grande cineasta come Scorsese. Ci piace perché si possono riconoscere la sua poetica, e il suo modo di fare cinema, ma non ci si accorge che questo autore ha smesso di ripartire per davvero.
Di certo, se non si è vittima della politica degli autori, la quale punta alla difesa senza oltranza dei grandi maestri, The Wolf of Wall Street si mostra come un film vecchio, fermo su se stesso, già visto, senza alcuna svolta.
Questo perché la storia di Jordan Belfort è ancora una storia di ascesa e caduta, come Scorsese aveva già trattato, con ben altro stile. Il suo protagonista è il gemello meno sveglio di Henry Hill e Sam “Asso” Rothstein. Scorsese non riesce ad andare a un punto di vista inedito, non va oltre alla messa in scena della trama e al presente che racconta.
In questo discorso la finanza e suoi eccessi non c’entrano, il film non è su Wall Street e le sue losche manovre, (poteva essere ambientata anche nel mondo del Basket) ma è la classica parabola di un uomo che dalla vetta del successo sprofonda nella caduta più rovinosa: nulla di nuovo, nulla di necessario.

Scorsese si guarda nel passato senza forza, senza rielaborazione: l’onnipotenza degli anni ’90, lusso, sesso, droga, soldi, personaggi che perseverano nel loro malessere ma non ne sono consapevoli. Il regista di Taxi Driver (1976) la butta in farsa, ci fa ridere dello schifo che vediamo, usa il tono da black comedy per un’epopea cupa.
Ma l’immaginario è di plastica, poco nuovo e interessante, non aggiunge alle vicende dei suoi personaggi (tutti piatti e uguali), e al contesto storico che li circonda. Quindi forse il più grave rimpianto di The Wolf of Wall Street è l’impersonalità di Scorsese: una versione vent’anni dopo ma paradossalmente vent’anni indietro di altre pellicole del suo stesso regista.
Intendiamoci, non si sta parlando di un film irrimediabilmente brutto. La furia virtuosistica della regia e del montaggio è presente, la durata di 179 minuti è eccessiva ma godibile, il film risulta divertente e tutti gli interpreti funzionano.
Come detto Scorsese aveva bisogno di questo film, aveva bisogno di tornare sui suoi passi, forse l’errore è stato quello di specchiarsi troppo nel proprio delirio visivo, capendo che non si ha più molto da dire. La frase più gettonata in questi giorni è: “é il miglior Scorsese dai tempi di Casinò”, ecco forse questo è il punto. The Wolf of Wall Street ci piace più per quello che ricorda che per quello che è.

A proposito dell'autore

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20 anni, diplomato al liceo linguistico. La passione per il cinema lo ha travolto dopo la visione di Pulp Fiction. Ha frequentato un workshop di critica cinematografica allo IULM. I sui registi di riferimento sono Tarantino, Fincher, Anderson, Herzog e Malick. Ama anche anche il cinema indie di Alexander Payne e Harmony Korine. Oltre che su CineRunner, scrive anche su I-FilmsOnline.