Un’altra operazione di ingegneria narrativa. Con Steven Soderbergh i conti sembrano non essere mai chiusi. Dopo il capolavoro The Informant! (2009), Effetti collaterali (2013) segna un altro importante capitolo della trasformazione dei generi, nella filmografia di questo eclettico film-maker.
Rooney Mara, Jude Law, Catherine Zeta-Jones assumono le fattezze di mostri, Soderbergh mette in scena follie metropolitane, dirige un altra forma mentis, attraverso un copione che muta nel tempo del cinema, come già era successo con The Informant!
Si tratta di un cinema epidermico e malsano, in cui la prima ora serve a Soderbergh per sondare il terreno, camuffando questo noir sui generis in un angolo narrativo paradossalmente iper deja-vu, per poi lasciarlo esplodere nella seconda parte, dove i ruoli si confronteranno con le loro nemesi, pagandone le conseguenze.
In termini di tensione è il massimo per il genere. Soderbergh attua uno scarto rispetto ai suoi due maestri, Hitchcock e De Palma, misurando il proprio cinema furbo e arrogante con la consapevolezza che già altri hanno attuato il modello del “camuffamento a distanza”, eseguendolo (ma Soderbergh di questo ne è consapevole) molto meglio di lui.
L’autore del sempre pessimo Sesso bugie e videotapes (1989) ha imparato bene la lezione: sperimentazione sul camuffamento a distanza, svolte improvvise, scorrettezze programmaticamente violente. Tutto già visto? Quella di Soderbergh è una avanzata consapevolezza di un cinema accurato che rimodula il deja-vu, che ha come arma la seduzione del doppio e usa la perversione come vettore di senso per la riuscita dell’intrigo.
A Hollywood nessuno si azzarderebbe a fare queste cose. Cinema e punto a capo. Niente messaggi, niente morale, niente colpi bassi. Attori importanti usati come caratteristi (come nel caso della Zeta-Jones, qui alla sua migliore performance), una diva per caso come Rooney Mara, qui ridotta al ruolo di una semi-zombie, autrice di una strepitosa congiura ai danni di un mellifluo, insopportabile e perdente Jude Law.

Questi sorprendenti “effetti collaterali” si rivelano una decisiva cartina di tornasole per il genere, segnando l’ingresso di Soderbergh nel novero dei grandi ingegneri della narrazione postmoderna, accanto a Tarantino e Nolan.
La differenza rispetto a questi ultimi è che Soderbergh convince di meno (solo in senso artistico, perché la serie di Ocean’s (2001-2007), Erin Brockovich (2000) e Traffic (2000) andarono benissimo al box office) con le grandi produzioni. E’ come se non sapesse venisse distratto dei milioni di Hollywood. Preferendo le piccole produzioni, sentendosi più a suo agio nella sperimentazione di piccole opere sulla paranoia come The Informant! e questo Effetti collaterali, per altro sostenute da script di elevata fatrura, sempre più una rarità a Hollywood.
Probabilmente per Soderbergh il film della svolta è stato il dittico sul Che (2008), un’opera densa, coraggiosa, prolissa, e profondamente sperimentale. Soderbergh non è Malick. Il suo nuovo cinema sulla paranoia e sul contagio rivelerà cose molto più delicate e torbide.
Un genio dei poveri, verrebbe da dire, di certo un costruttore di microcosmi sociali in preda al delirio, i cui personaggi sono costretti ad inseguire ideali all’interno di strutture sociali che li respingono.
Di qui la tendenza verso l’horror vacui di storie dall’amoralità conseguita, diramando quelle eccezionali sfumature che si istallano nei rapporti tra personaggi sfiniti e oltre modo repellenti.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).