Il cinema come luogo di configurazione del passato, come strutturazione di un campo del sapere che appartenga ad un altro tempo, lontano ed indefinibile nella memoria.
Ecco, se la memoria stessa dello spettatore tende, a distanza di anni dalla visione di un film, a modificare il film in questione, attraverso una diversa percezione delle immagini, tendendo a snaturarne la versione originale, oggi, con i nuovi dispositivi si può ottenere un perfetto, dettagliatissimo “remembering” temporale, una ricostruzione d’ambienti, di primi piani, di inquadrature, di colori, come non li si è mai visti.
Questo è possibile attraverso l’utilizzo di supporti dove, con la ripulitura dell’immagine dalle impurità e dalle imperfezioni provocate dalle condizioni di conservazione dei film, si ha la possibilità di visionare copie ad una qualità anni fa impensabile, attraverso la visione di edizioni dei classici (ma non solo) in Blu Ray.
E’ così che si scopre (o si riscopre) qual’è la vera natura del cinema: la Time Machine. La possibilità di tornare ad un luogo remoto, di cui si ha sempre avuto conoscenza sommariamente, ma di cui non si ha mai avuto percezione in maniera tale da avere una raffigurazione del mood storico, spazio-temporale in cui sono stati narrati i fatti.
In particolare, il mood temporale si configura in un decennio che è passato, messo in prospettiva, portato in giudicato e digerito, ma a volte mai abbastanza capito.
Il mood viene restituito attraverso l’emozione di colori vivissimi, configuratisi come vettore semantico di ciò che si è perso nel tempo: è la struttura temporale nella sua imperfezione illogica e sillogica. Quando il tempo si avvicina allo spettro del visivo, cogliendo la sfumatura del secondo, si attua lo scarto primigenio tra passato, presente e futuro. Il cinema lavora qua, nello scarto infinitesimale tra un’inquadratura e la successiva.
Gli esempi si sprecano: The Color of Money (1986) di Martin Scorsese, Do the Right Thing (1989) di Spike Lee, Legend (1985) di Ridley Scott, Dune (1984) di David Lynch, Fright Night (1985) di Tom Holland, War Games 81983) di John Badham. Rivisti in Blu Ray si ha la sensazione che il tempo non sia passato affatto, che sia ancora tangibile e la commozione è forte. Soprattutto perché si parla del decennio più bistrattato degli ultimi 50 anni. Il decennio di Reagan, della Tatcher, della Guerra Fredda, dell’edonismo sfrenato.
Non solo. Gli anni ’80 sono così odiati soprattutto perché chiudono i fervidi e tremendi (per certi versi) anni ’70, gli anni della contestazione, del cinema americano impegnato e ruvido, ma anche il decennio delle bombe e delle stragi.
Gli anni ’80 meritano un rispetto e una legittimazione estetica, che molta critica non ha ancora il coraggio di dargli. Perché? Il delta estetico è troppo forte. Tra anni ’70 e anni ’80 c’è una differenza di vedute enorme, che non potrebbe comunque, in alcuna maniera, essere colmata. La dicotomia tra chi preferisce i ’70 dagli ’80 rimarrà intatta, e non ci si potrà fare nulla.
Il cinema è un viaggio nel tempo che consente di rivivere istanti perduti. E’ come se fosse possibile, per il tempo della visione, di interrompere il normale flusso temporale odierno e rivedere qualcosa che rimasto sommerso ed invisibile. Si può toccare con mano l’essenza di una rivoluzione in atto, aderire alla Storia senza rinunciare ad avere un punto di vista, perché si sta vivendo il flusso della Storia durante la sua raffigurazione in perenne movimento.
Il cinema penetra nelle maglie della Storia arrivando a restituire allo spettatore la visione del tempo originaria, com’era all’epoca, modificando i colori del tempo, riducendoli a pixel della memoria, portando lo spettatore in un’altra dimensione.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).