The French Dispatch

Per commemorare la dipartita dello stimatissimo editore e fondatore di una rivista, quattro giornalisti inventato quattro storie di grande complessità, ambientate in una piccola cittadina francese, nel 1900.
    Diretto da: Wes Anderson
    Genere: commedia
    Durata: 108
    Con: Bill Murray, Frances McDormand
    Paese: USA, GER
    Anno: 2021
7.5

Per un autore con la A maiuscola come Wes Anderson, proprietario di uno stile estetico unico e impossibile da imitare, quello che bisogna evitare è lo scivolare nella maniera o nella ripetizione ossessiva di sé. The French Dispatch assume questo compito con grande precisione d’intenti e, miracolosamente, non fallisce, bensì rivendica una statura autoriale che non ha eguali nella Hollywood di oggi.

Bisogna dire che purtroppo o per fortuna i film di Wes Anderson sono per pochi. Anche se Grand Budapest Hotel incasso una buona cifra nella stagione 2014/2015. Quello che forse non si può spiegare al pubblico televisivo imperversante è la rara magnificenza immaginifica, la capacità compositiva, la libertà creativa (identica a quella di Tarantino e di Paul Thomas Anderson) che sfocia nell’altissimo senso della disciplina per il proprio lavoro.

Nella prima parte di The French Dispatch, visto in sala con alcuni vaghi presentimenti negativi dati da un’accoglienza cannense non unanime, per i primi 45 minuti ho avuto difficoltà a smettere di sogghignare e ho avuto la sensazione di non trovarmi davanti ad un clone di Moonrise Kingdom o Grand Budapest Hotel. Chissà se Wes Anderson rivede i suoi film e possiede il senso dell’accumulo in modo così fortemente visionario da impedirgli di ripetere due volte la stessa idea? O meglio, l’intuizione derivata dal dipinto fisso rimane tra Moonrise Kingdom e The French Dispatch, ma l’us che se ne fa è differente. Il tono è più malinconico e assolutamente ilare, il registro è molto più svelto e il tempo dato allo spettatore per recepire il senso dell’inquadratura resta notevole.

Molte inquadrature di The French Dispatch sono costruite in modo estremamente complesso, ma mai gratuito: durante una scena si possono vedere tra piani distinti d’azione, d’istinto lo spettatore è portato a guardare al centro, poi si posta a sinistra dove vede un gruppo di persone inquadrate solo con le mani che sta giocando a carte, a destra c’è un altro piano visivo, visto di scorcio, dove sta scorrendo l’acqua. La mia memoria è andata a L’Ultima tempesta di Peter Greenaway, film evidentemente diversissimo da quello di Anderson, ma che presenta delle iper stratificazioni dell’immagine molto simili.

Nella seconda parte ho pensato che il film fosse lungo due ore e nell’ultima parte la mia capacità ricettiva nei confronti della narrazione è ampiamente vacillata, di conseguenza sono rimasto travolto dall’impeto delle imagini, in una sequenza animata di straordinario valore estetico. E’ evidente che se ho commesso questo errore di valutazione nella durata del film, questo significa che Anderson ha inserito troppo materiale. Qualcuno lo considererà un difetto di sintesi narrativa. Non ci può far nulla. Io ho ricevuto un’esperienza visiva come nessun’altra in questi anni.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).