Borat: seguito di film cinema

Il giornalista kazako Borat viene incaricato dal presidente della sua nazione di portare un dono speciale a Mike Pence, per ottenere prestigio ed entrare nella schiera degli uomini più potenti del mondo. Ma la figlia di Borat, Tutar, stravolgerà i suoi piani, in una sequela di equivoci e situazioni sempre più imbarazzanti.
    Diretto da: Jason Woliner
    Genere: comico
    Durata: 95
    Con: Sacha Baron Cohen, Maria Bakalova
    Paese: UK, USA
    Anno: 2020
7.3

Otto sceneggiatori (sei uomini, due donne) sono serviti per imbastire lo script di Borat: seguito di film cinema di Jason Woliner, secondo capitolo del precedente film del 2006, con l’indomito Sacha Baron Cohen nei panni di Borat, scheggia impazzita trasandato e improbabile inventata dal comico (?) britannico. Inserisco il punto interrogativo perché il presunto comico Cohen non appare affatto come un comico sui generis, non accostabile di certo agli altri grandi comici del novecento, da Chaplin a Mel Brooks.

L’accostamento col gruppo dei Monty Python potrebbe forse risultare meno indecente. Sacha Baron Cohen viene dalla volgarità televisiva così come il gruppo di Terry Gilliam veniva da quella inglese, magari non così volgare come quella di Cohen. Il seguito di Borat rispetto al primo resta impiantato allo stile diretto e dinamitardo del precedente, ma sembra avere più cose da dire. Perché i tempi sono cambiati. Nel 2006 Facebook non esisteva e la politica statunitense non era ancora un terreno permanente di guerra.

Nel seguito di Borat gli otto sceneggiatori (non riesco a immaginare la fatica che avranno fatto otto cervelli diversi ad andare d’accordo attorno al tavolo di lavoro) sono chiamati ad articolare una struttura narrativa molto più complessa, utilizzando riprese dal vero che sembrano ricostruite e viceversa, come si vede nell incredibili scene con protagonista Rudolph Giuliani, un vero gioiello di messa in scena improvvisata, dove lo scontro tra reale e finzionale si fa massimo.

Rispetto al primo capitolo, dove Borat aveva come spalla il produttore obeso Azamat (Ken Davitian), con il quale la correlazione scenica non funzionava affatto, nel secondo capitolo Borat fa coppia con la figlia, cui l’attrice Maria Bakalova offre un’interpretazione aderente ad un modello totalmente altro e complementare rispetto al protagonista, e il duetto funziona per eccesso di incredulità. I due poli opposti si attraggono e si lascia perdere la competizione tra maschi per Pamela Anderson.

Le cose più incredibili si vedono con la crisi sanitaria da virus cinese. Borat abbraccia in piena pandemia due americani sconosciuti ed viene ospitato nella loro casa. Possibile? Realtà? Finzione? La scena ha dell’incredibile eppure avviene. Il modo in cui il seguito di Borat racconta il mondo di The Donald è del tutto onesto. Borat prende in giro sia i democratici che i repubblicani raccontando l’odio dei repubblicani in modo puntuale. La satira sul maschilismo del cartone animato su Melania vestita da Cenerentola è palesemente una farsa dolciastra, senza contraccolpi puntuti.

Non si sa per quale motivo Cohen abbia abbandonato il regista Larry Charles (o viceversa) dopo quattro film. Il meccanismo sembra vicino alle serie televisive come Dr. House o Breaking Bad, dove il “manico” non ha molta importanza, dove non c’è una forte personalità autoriale da parte del regista, che deve solo eseguire una sceneggiatura senza introdurre elementi personalistici dal punto di vista visivo. La differenza tra Charles e Woliner tra i due Borat la si può vedere nei dettagli. Sono dettagli difficili da intravedere all’interno di un miscuglio così pacchiano ed eterogeneo di immagini riprese dal vero. Ma l’insieme fa molta paura. E’ il meccanismo alla base di questo secondo Borat. Fare paura senza fare tanto ridere. La satira antisemita per esempio: non si sa se ridere o avere paura davanti a tanta arguzia.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).