Probabilmente Terry Gilliam ha sempre saputo di voler fare il regista. L’autore, classe ’40, americano di nascita, ma cittadino britannico, ha iniziato la sua carriera artistica come membro del celeberrimo gruppo comico inglese dei Monty Python, in veste di attore ma soprattutto come autore delle sequenze animate, bizzarre e visionarie, all’interno dello show Monty Phython’s Flying Circus.
Come regista Gilliam dirige i film più famosi del gruppo comico come Monty Phython e il Sacro Graal (1975) e Monty Python e il senso della vita (1983), si tratta di film parodistici e dissacranti in pieno stile Monty Python, non ancora utili alla definizione dello stile che l’autore maturerà in seguito. Non lo sono nemmeno i primi due film diretti fuori dal contesto comico del gruppo inglese: Jabberwocky (1977), una commedia medioevale con toni favolistici, e I banditi del tempo (1981), un fantasy d’avventura cinico e divertente.
Entrambe queste opere mostrano punti d’interesse ma sono ancora acerbe dal punto di vista registico. Bisogna attendere l’anno 1985 per ammirare il vero Gilliam, regista che co Brazil riuscirà a creare un’opera di culto e innovativa, in cui stile e contenuti si sposano a meraviglia.
Brazil è una commedia nera e grottesca ambientata in un ipotetico futuro, dove la società è vittima di un’ossessionante burocrazia, spietata e meschina, comandata da uomini inetti.
E’ a partire da questo film che la poetica di Gilliam si dipana. La realtà descritta da Brazil è una distopia dove gli esseri umani sono costantemente controllati e in pericolo di vita, ma soprattutto vivono un’esistenza grigia dominata dalla tecnologia, dove la libertà d’espressione è costantemente minacciata.
Così l’unico modo di rimediare è rifugiarsi nell’onirico, nel sogno estremo, dove si può volare con un’armatura alata e inseguire la donna-angelo che si ama. L’ideologia sottintesa a un’opera come Brazil è che non c’è speranza di sogno nella realtà quotidiana, di conseguenza, bisogna cercarla altrove, in un altro universo.
L’abilità del regista americano sta nell’aver reso perfettamente con grande eclettismo stilistico e scenografico una quotidianità tetra e grigia, piena di palazzi del potere troppo impegnati a impedire la felicità altrui, dove il gioco del surrealismo gilliamiano si esprime nel desiderio di fuga attraverso immagini surreali e di grande impatto cinematografico.
Nel’universo creato da Gilliam in Brazil non c’è spazio per la realizzazione concreta delle visioni create all’immaginazione, come dimostra il finale pessimista e mai più lontano dal consolatorio.
Questa personale visione delle cose prosegue nel 1988, con Le avventure del Barone di Munchausen, commedia fantastica al centro di mille peripezie produttive. Mentre una cittadina sta per essere assediata, una compagnia di teatranti narra le mirabolanti vicende del Barone di Munchausen, finche il vero barone non si presenta in scena per raccontare la vera storia.
Anche in questa pellicola si parla di fantasia e immaginazione, il cardine principale del film è la figura della piccola Sally (una giovanissima Sarah Polley), che sarà la prima a credere ai racconti del carnevalesco protagonista interpretato da John Neville. La sua fiducia nel Barone la porterà a vivere un’avventura meravigliosa, come un viaggio sulla luna o su un vulcano insieme alla dea Venere (Uma Thurman). Gilliam, che dopo Brazil ha ormai affinato il suo talento, realizza una fiaba moderna piena d’invenzioni visive, capace (soprattutto all’epoca) di lasciare stupefatti grazie all’uso di effetti speciali mirabolanti.
In questo film, sembra dire Gilliam, nemmeno la morte può fermare la capacità di sognare, nella continua creazione di racconti folli e avveniristici.
Nel successivo film, La leggenda del re pescatore (1991), rispetto ai precedenti racconti fantastici adottati da Gilliam, la vita reale torna a bussare alla porta dei protagonisti, in questo caso Jeff Bridges e Robbie Williams.
Il primo è un DJ caduto in disgrazia, il secondo un clochard che dopo aver perso la moglie, vive in un mondo tutto suo, mettendosi alla costante ricerca del Graal. In quest’opera è chiaro il netto contrapporsi tra due modi di vivere diversi.
Jack Lucas (Jeff Bridges) è un uomo disilluso, un personaggio che, almeno all’inizio, sembra non appartenere neanche al microcosmo favolistico caro a Gilliam. Parry (Robin Williams) è invece un uomo che ha perso la moglie in una brutale strage, ed è ossessionato dalle apparizioni di un fantomatico Cavaliere Rosso, ma è anche un inguaribile ottimista, convinto che il Graal si trovi in un palazzo a Manhattan, un atteggiamento che rivela l’ingenua e dolente umanità di un personaggio folle che non ha più nulla da perdere e si attacca alla più improbabile delle chimere.
La leggende del Re pescatore è meno barocco del solito, rispetto alle straordinarie invenzioni visive viste in Brazil, propendendo per uno schema narrativo-visivo più canonico.
In una pellicola che miscela sapientemente commedia e dramma, Terry Gilliam continua a cercare la magia nel quotidiano, rifiutando di accettare la desolazione della realtà come immutabile stato delle cose. Attraverso la storia dell’amicizia tra due personaggi agli antipodi, Gilliam considera la follia una giusta via di redenzione, in cui un desiderio per quanto fuori dal normale, è sempre realizzabile. Quattro anni dopo, precisamente nel 1995, Terry Gilliam dirige uno dei suoi film più celebrati, L’esercito delle 12 scimmie.
Liberamente ispirato al cortometraggio La Jetèe (1963) di Chris Marker e a La donna che visse due volte (1959) di Alfred Hitchcock. Tornato alle atmosfere tecnologicamente angoscianti già viste in Brazil, Gilliam abbraccia il genere della fantascienza apocalittica, dove l’ergastolano James Cole (Bruce Willis), viene spedito indietro nel tempo per scoprire la causa di un virus che nel 2035 sterminerà la popolazione umana.
A livello narrativo si tratta di un tipico film di genere e la mano di Gilliam si vede soprattutto nell’impianto figurativo del film, nel rendere un futuro claustrofobico, dove l’umanità è scomparsa. Eppure anche in questo caso, i sogni/incubi e ancor di più i ricordi sono temi centrali per l’ex Monty Python, il personaggio di Bruce Willis è infatti ossessionato dalla rappresentazione onirica dell’evento della propria morte.
Più che un’opera politica o un film su i viaggi nel tempo, L’esercito delle 12 scimmie si presenta come primo punto d’arrivo all’interno della filmografia gilliamiana.
Il mondo, il passato, non può essere salvato o modificato, quello che è successo non si può cancellare, la vita è destinata irrimediabilmente a scomparire. Ciò che rimane James Cole è solo la memoria, una realtà fittizia, un microcosmo intimo che gli permette di vivere all’infinito, dove ripetere la sua esistenza e di (ri)vederla.
Con Paura e delirio a Las Vegas (1998), Gilliam ritorna a toni più consoni. Tratto dal libro di Hunter S.Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas, lo stile e la poetica di Gilliam sono come filtrate sotto l’effetto della mescalina. Ogni cambiamento di percezione sensoriale e mentale che i due protagonisti Johnny Depp e Benicio Del Toro subiscono diventa per Gilliam un’occasione di cambiamento visivo e per sfoderare il suo talento visionario. Questa sgangherata commedia sembra un divertissement per Gilliam, e la raffigurazione di un’America in piena guerra del Vietnam dipinta da Gilliam sottende che l’unica soluzione all’imbarbarimento guerrafondaio, sembra possa arrivare dall’evasione lisergica.
In quanto, lo stato onirico non è più raggiungibile tramite atto creativo della mente, ormai irrimediabilmente impoverita e l’unico modo di far emergere un’apertura mentale è il supporto stupefacente, l’alterazione della coscienza attraverso allucinogeni.
Con Paura e delirio a Las Vegas, Gilliam sembra affermare che lo stato onirico è conseguenza del dolore. Dopo una pausa durata sette anni, nel 2005 Gilliam torna alla cabina di regia con due film.
Il primo, I fratelli Grimm e l’incantevole strega, è un omaggio fantasy alle fiabe create dai celebri fratelli interpretati nel film, dalla coppia Matt Damon e Heath Ledger. La pellicola, è un ulteriore riflessione sul potere dell’immaginazione e sul dovere di accettare la magia nel mondo, si tratta di un film molto classico, che però non impedisce a Gilliam di confermare il suo stile fiabesco e surreale.
Il secondo film del 2005 è Tideland – Il mondo capovolto, forse il film meno conosciuto e apprezzato del regista. Protagonista è la piccola Jeliza Rose (Jodelle ferland) che dopo la morte di entrambi i genitori per overdose, si rifugia in un personale mondo di fantasia con teste di bambole pettegole, scoiattoli parlanti e bizzarri personaggi.
Altra favola fantasy diretta sempre col dovuto immaginismo scenico, ma in Tideland sembra che il messaggio di Gilliam si faccia più debole e troppo esplicito.
La giovane protagonista, non accettando una realtà tangibile ma troppo oscura, ne crea un’altra dove tutto è ovattato e sicuro, nonostante il mondo materiale torni sovente a far capolino attraverso incursioni debosciate e fuori di testa.
Chiarissimo l’obbiettivo di Gilliam in questo film, la serenità si trova dentro di noi e, forse è meglio non uscire mai dal nostro involucro. Un modo di concepire il mondo che Gilliam aveva elaborato meglio nei film precedenti. Nel 2009 esce Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo.
Il film è balzato agli onori della cronaca più per essere stato l’ultimo in cui recita il compianto Heath Ledger, che per effettivi meriti artistici. Con quest’opera Gilliam cammina su sentieri già conosciuti ma non per questo meno originali. La forza di immaginare altri mondi come la bambina di Tideland, qui si moltiplica per tre, come i volti che il personaggio di Heath Ledger si trova a cambiare nelle varie dimensioni che costituiscono lo specchio (omaggio a Carroll e alla sua Alice) del magico dottor Parnassus interpretato da Christopher Plummer.
Un film tutto incentrato sullo scontro tra realismo, quello di una società sporca e mercificata, dove tutto è vendibile, e il colorato mondo pieno di gioia creato da Parnassus, in cui l’unico requisito fondamentale per entrarci è saper immaginare, non facendosi compromettere dall’ignoranza e dall’oscurantismo. Il percorso filmico di Terry Gilliam, dunque, presenta film diversi per genere e temi, riuniti dal comun denominatore dell’onirismo come mezzo per oltrepassare la soglia tra visibile non visibile. Un regista, Gilliam, capace di reinventarsi, rimanendo sempre coerente con se stesso.
Con il suo nuovo progetto, The Zero Theorem (2013), presentato in Concorso alla 70a Mostra del Cinema di Venezia, ha come protagonisti Christoph Waltz e Matt Damon, Gilliam torna alla fantascienza, parlando dell’ossessione tutta contemporanea per la tecnologia, che a detta del suo autore, ormai “è una religione”. Lo sguardo iconoclasta di Gilliam torna a veleggiare sugli orizzonti di un’umanità che ha più bisogno che mai della sua anti-morale lisergica.

A proposito dell'autore

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20 anni, diplomato al liceo linguistico. La passione per il cinema lo ha travolto dopo la visione di Pulp Fiction. Ha frequentato un workshop di critica cinematografica allo IULM. I sui registi di riferimento sono Tarantino, Fincher, Anderson, Herzog e Malick. Ama anche anche il cinema indie di Alexander Payne e Harmony Korine. Oltre che su CineRunner, scrive anche su I-FilmsOnline.