Zodiac

Un vignettista del San Francisco Chronicle negli anni '70 indaga sulla misteriosa identità del killer che si fa chiamare Zodiac.
    Diretto da: David Fincher
    Genere: thriller
    Durata: 157'
    Con: Jake Gyllenhall, Mark Ruffalo
    Paese: USA
    Anno: 2007
6.9

Una superba opera di occultamento onnisciente del cinema. Fincher raggiunge e supera la sua creatura più perfetta che è Seven, il prototipo su cui si basa praticamente ogni thriller moderno. Ma il regista forse va oltre, finge di raggiungere la vetta e l’annulla, crea una tela di nomi, sospetti, presunti assassini, fatti, eventi, tracce che si frappongono, costruendo una rappresentazione calibrata ma nuda, che non riesce a svelare l’arcano che si concentra nelle immagini: lo spettatore vede l’assassino ma si perde e brancola nel buio, pur sospettoso e ignaro di ogni spiegazione.

Potrebbe irritare Zodiac, si tratta di un racconto classico che si comporta da testo postmoderno quando il postmoderno è già concluso, morto e sepolto davanti alle nuove frontiere di una narrazione realista neo-classica. Che si tratti del corollario contenutistico di un esperto formalista di un’avanguardia mai assimilata dal cinema americano? Quando Fincher si è espresso come esperto formalista ha partorito due opere discutibili di cinema apocalittico come Fight Club e Panic Room, ovvero: una bella confezione per prodotti squisiti visivamente ma deboli nel contenuto e nella rappresentazione di un mondo alla deriva.

Già, la deriva. Zodiac è il film in cui Fincher è come se avesse sfidato un giocatore imbattibile utilizzando una tattica basata sulla difesa, cercando di prevenire le mosse dell’avversario. Di conseguenza, abbiamo un film che si piega su se stesso, acceca non per eccesso di software come accadeva in Panic room (con le futili ma eleganti carrellate lungo i tubi del gas), ma per omissione di quest’ultimo.
Opera mentale e onirica Zodiac, rispetto agli altri due grandi esemplari di noir urbano, Collateral di Micheal Mann e Inside Man di Spike Lee, il film di Fincher prende una strada trasversale facendo un passo più grande della gamba: si sa che Fincher è quel regista che lavora su dei soggetti impossibili da realizzare per poi piegarli alla propria visione.

Il processo gli è riuscito con Seven, gli è riuscito ma non è stato capito con The Game Nessuna Regola, ci ha provato con Fight club e il risultato è stato un pastrocchio geniale e superficiale, un film fastidioso ma che conserva un’innegabile forza tellurica di spettacolarizzazione ante litteram, non gli è riuscito affatto in un film vistosamente sbagliato come Panic room, ma per quest’ultimo Fincher è esente da molte colpe, avendo avuto molti problemi logistici tra mancanza dell’attrice principale (Nicole Kidman) e screzi con il direttore della fotografia (Darius Khondji), per ultimo, gli è riuscito in maniera strabiliante e fuori dalle “classiche” norme di racconto in un film come Zodiac, in cui in due ore e mezza di durata non si arriva al colpevole, non c’è una sola sparatoria, non c’è scontro finale tra assassino e detective. Si assiste alla messa in scena di un occultamento. E ai modi per scongiurarlo.

La grandezza di Zodiac non è in quello che fa vedere (molto poco), ma nella frammentazione dei punti di vista. La ricerca della verità implica una continua operazione di sottolineatura attraverso sottigliezze, incroci, deviazioni che trasferiscono di continuo l’attenzione di chi guarda dal piano del racconto a quello dell’immagine: è qui che si situa lo scarto tra ciò che è visibile e ciò che è occultato e fuori campo. Un modello di amplificazione della struttura narrativa che sottintende un universo ben più ampio.