The counselor Il procuratore

In Messico, nella città di Juarez, tre imprenditori legati al commercio della droga e un avvocato, sono implicati nel furto di una partita di droga destinata ad un potente cartello. Ognuno subirà le conseguenze della feroce vendetta dei boss. Solo il più scaltro avrà partita vinta.
    Diretto da: Ridley Scott
    Genere: thriller
    Durata: 117'
    Con: Michael Fassbender, Penelope Cruz
    Paese: USA
    Anno: 2013
5.1

Inserire le pedine nello scacchiere, predisporre i ruoli, far saltare il banco e rivelare le vere identità in gioco: The counselor Il procuratore di Ridley Scott parte mettendo la retromarcia, mostra il suo falso volto suadente, si inceppa su apparenti stereotipi di alcune situazioni abusate e nel finale ingrana la marcia dell’hard boiled postmoderno, saltando a piè pari tutte le possibili conseguenze di una mancanza così astuta di mezze e misure, che nella prima parte si erano ben camuffate nel plot “a rilento”.

Scott parte da una sceneggiatura di Cormac McCarthy trovando inizialmente un respiro profondo e inatteso nella relazione tra l’avvocato (Michael Fassbdender) e la sua fascinosa compagna (Penelope Cruz), in seguito caratterizza l’altro polo dell’intrigo noir, presentando i due truffatori del mercato messicano della droga (Javier Bardem e Cameron Diaz), come due iguane assetate di sangue, personaggi privi di scrupoli e palesemente abituati alla violenza messicana.
In mezzo ai due poli della discussione, un colpo di genio efferato e sui generis: il personaggio enigmatico e ambiguo di Brad Pitt, altro truffatore del mercato della droga, che dispensa consigli all’avvocato senza avere la spocchia dell’amico moralista, per niente impaurito dalle cattive acque in cui si sta mettendo l’inconsapevole amico.
Quello che avviene nella seconda parte è un precipitare vertiginoso della faccenda, in cui il thriller prende corpo quasi per caso: l’avvocato  si illude che le cose andranno per il verso giusto, nonostante i consigli dell’affarista a farsi da parte se ha dei dubbi, come in effetti traspare dalle sue espressioni vuote, quasi assenti. Westray (Pitt) sa come vanno a finire queste cose, l’avvocato no. Alla fine sarà proprio il finanziere saccente ad avere la peggio, mentre l’avvocato verrà ferito con meno spargimento di sangue ma in modo altrettanto doloroso.
Essendo il cartello della droga messicano al centro di The counselor, Ridley Scott deve aver tenuto conto della serie tv Breaking Bad con Brian Cranston, ma il suo thriller è di certo esteticamente molto meno variopinto e più classico della fortunata serie tv.
A Scott interessano soprattutto i dialoghi colti, le atmosfere tagliate dal buio (superba la fotografia di Dariusz Wolski), persino scene bizzarre con Cameron Diaz che simula un rapporto con una macchina, scena di dubbio gusto ma di ironia pungente.
Nella seconda parte si assiste ad un rovesciamento dell’atmosfera, che da distesa si fa torbida, malinconica, aprendo riflessione sulla caducità della vita. Si sa che in Messico la violenza è dilagante e si può morire in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo. L’arte della morte nel Messico di The counselor è un atto di feroce remissione dei peccati, una crudeltà efferata in cui i carnefici firmano le loro opere di morte con l’ingegno meccanico di chi non è capace di dare alcun valore alla vita.
Scott lavora efficacemente sul genere attraverso lo script di McCarthy, parcellizandone il contenuto glabro e scarno, è capace di ottenere una sintesi mai abbastanza devota della pagina scritta, ottenendo una cartina di tornasole del suo cinema sperimentale, sempre diverso dai suoi esiti precedenti.
Scott non fa mai la morale, racconta, non ha paura di esercitare il suo pieno controllo sulla materia del proprio filmato e del filmabile. The counselor non è un ritorno ai vertici di American Gangster (2007), dopo la folgorante parentesi (non capita) del gore fantascientifico di Prometheus (sublime scheggia di follia gore), ma una sua versione in forma di discesa agli inferi, un cronotopo rivoltato, una figura di morte che per una volta non si compiace delle efferatezze (come non ricordare il peggior Ridley Scott di sempre,  Hannibal ).
Stavolta Scott ha preferito sondare l’anima della carne nuda, il rituale ingordo della macchina cinema che non si accontenta mai di ciò che vede: tentare di dare un senso all’anima che cambia e muore, producendo anche stranianti effetti di ironia erotica sincretica. Ridley Scott una volta era definito “il cineasta del bagnato”, è rimasto un cultore dell’immagine che si presta ad un classicismo di certo fuori moda e inquadrato come un mausoleo rivelatorio.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).