Blackhat

Un hacker autore di un importante codice informatico, viene liberato dall'FBI perché prenda parte ad una task force, per indagare sulla violazione del codice informatico che ha provocato una grave crisi tra i mercati.
    Diretto da: Michael Mann
    Genere: thriller
    Durata: 133
    Con: Chris Hemsworth, Viola Davis
    Paese: USA
    Anno: 2015
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É una coerenza che non conosce compromessi quella di Michael Mann, nemmeno quando affronta l’invisibile, neppure quando si confronta con una storia solo all’apparenza tanto distante dal proprio sentire, dalla viscerale umanità di un cinema che solo ingenuamente si può ricondurre a una qualche logica di genere. Perché Blackhat – ultima fatica del regista statunitense a sei anni da Nemico Pubblico –  è, né più né meno, un film enorme e inaudito, la vetta espressiva di un percorso autoriale unico, capace di farsi parabola umana su libertà, realtà e perdita nell’era dello sguardo e della sua negazione.

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Ecco allora che la figura di Nick Hataway (Chris Hemsworth), hacker geniale fatto uscire di prigione per aiutare le autorità (quelle statunitensi e quelle cinesi, unitesi in un’inedita task force) contro la minaccia di un altro micidiale cyber-criminale (un blackhat, appunto) che sta gettando il mondo nel caos, si va a sovrapporre perfettamente con quella del tipico eroe manniano alla disperata ricerca di una libertà, di un’altra vita che niente ha a che vedere con l’ordine costituito, nulla ha da spartire con un mondo virtuale che regola, asservendolo, il destino della società, ma che è, invece, sempre e solo una ricerca di autenticità ispirata dal cuore, da un sentire che è, prima di tutto, un vedere oltre.

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É il valore dello sguardo l’essenza stessa del cinema di Mann, il perno su cui far ruotare il suo intero universo di senso, al di là di una storia chiara e incisiva, persino oltre la costruzione di un’azione come sempre magistrale. Portando avanti un discorso tematico e stilistico esplicitato definitivamente con Miami Vice (2006) e qui esasperato fino all’estremo da una poetica (digitale) che non conosce confini, che disdegna le regole formali del genere, sprezzante per le limitazioni di un sistema hollywoodiano rimasto troppo indietro anche solo per comprenderla, il regista statunitense esce allo scoperto confezionando la sua opera più coraggiosa all’insegna della rottura definitiva.

Untitled Michael Mann Project

Giocando, ancora una volta, col thriller, superando le limitazioni di una struttura ridotta a puro pretesto, Mann, operando per sottrazione, fa della trama nient’altro che un canovaccio da far deflagrare in favore di un accumulo espressivo totalmente svincolato dalla logica narrativa tradizionale, dove è lo sguardo incantato di un momento a riscrivere regole e vite, a coronare sogni infranti e morti violente. Un sentire totalmente altro, dove il tempo si dilata, la violenza si trasfigura in attimi di puro trasporto emotivo ed esistenziale e i silenzi si moltiplicano in una contemplazione che anela a una realtà che è un irrimediabile altrove, a un’umanità sempre più morente dietro lo sfavillio virtuale e inconsistente del mondo globale.

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É un gioco rischioso che sovverte i canoni, che impone il suo sguardo potentissimo trasfigurando una caccia all’uomo nell’ennesima fuga per la libertà, nella costante, tenace ricerca di un equilibrio sempre oltre la linea dell’orizzonte (o dell’inquadratura), nell’unica lotta possibile per dirsi realmente umani. Con una libertà d’azione senza precedenti, Mann firma l’addio a un cinema che non ha più ragione d’essere, rendendolo obsoleto. Lo spettacolo, scostante e imprevedibile, diviene a misura d’uomo, con ralenti, montaggio incalzante, geometrie folli a costruire un’azione digitale iperreale eppure, allo stesso tempo, fortemente poetica, sentimentale. In Blackhat c’è la lotta contro un tempo che veramente sta per finire, c’è la solitudine, la perdita e l’amore e c’è un profondo, onnipresente senso di malinconia a pervadere ogni fotogramma ribelle, ogni visione sospesa e liberatoria, ogni sguardo non convenzionale della macchina da presa.

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In una caccia all’uomo fantasmatica che diventa fuga e infine vendetta brutale e animalesca, il film di Mann non diviene altro che una lunga, sofferta uscita di scena, un faticoso ritorno alla realtà, la disperata ricerca di una fisicità ancora in grado di farsi trionfo catartico, di un’umanità che ritrova nel sangue, nella visceralità dello scontro fisico, nell’odio e nell’amore il senso stesso di quel reale che gli sfugge, troppo pericolosamente vicino a un virtuale che ormai lo ingloba. Come il suo protagonista che fende una moltitudine senza volto verso un futuro incerto, rischioso ma autentico, in una delle sequenze più emozionanti ed evocative del film, Mann firma il suo capolavoro assoluto di coerenza, continuando la sua avanzata sempre, rigorosamente, controcorrente.

A proposito dell'autore

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Un quarto di secolo circa, sancisce definitivamente il suo destino di cinefilo quando incontra, in una sala buia, il mondo pulp di Quentin Tarantino. Laureato in Comunicazione e Culture dei Media, pubblicista e critico, col tempo impara ad ampliare i propri gusti e le proprie visioni. Ama Fellini, i surrealisti, gli horror ben fatti e i lunghi piani-sequenza.