Gli sguardi di Marion Cotillard tradiscono una continua ricerca del personaggio, un afflato malinconico di devozione recitativa davanti ad una macchina da presa, che va ricondotta ad uno strumento di passaggio tra due medium: il corpo e la macchina.
L’attrice francese si fece notare inizialmente al grande pubblico per la performance in Big Fish di Tim Burton, dove interpretava la moglie del protagonista, nel film meno favolistico di Burton, il suo film più tenero, amaro, il più maturo e anche quello che, a gli occhi dei suoi fan della prima ora, è stato criticato maggiormente per l’ostentazione di un’estetica troppo ovvia e persino familista. Ma il ruolo dell’attrice francese qua sembra minoritario, invece è decisivo, in quanto occupa uno spazio di restringimento del corpo oculare, rendendo il cinema burtoniano improvvisamente piccolo e intimo. Marion Cotillard cela il proprio sguardo disincantato e materno come in un ricordo di famiglia, alleggerendo, sfoliando la sua performance verso uno statuto recitativo che amplia le corde dell’anima fantasy di un film che nega il fantasy, per farsi portavoce di un realismo che tenta disperatamente di dare una spiegazione al meccanismo stesso dell’affabulazione.
Dopo il film di Burton, Marion Cotillard entra nella rosa delle caratteriste di Hollywood ma senza avere ancora acquisito uno status da Diva. Nel 2007 il film di Olivier Dahan che l’attrice nei panni della cantante Edith Piaf, spalanca le porte della Cotillard all’Empireo delle Dive. Marion Cotillard vince l’Oscar come migliore attrice protagonista, prima attrice francese a vincere l’Oscar come leading role, per un film in lingua francese e in coproduzione europea. Il film di Olivier Dahan è un biopic piuttosto ben girato, ben recitato, senza sbavature, con le solite punteggiature del romanzo popolare, con un senso dello spettacolo e dell’emozione tutto sommato ben dosato. Nel film non c’è altro, il progetto estetico di Dahan si ferma sempre la dove si deve fermare; gli americani e il pubblico in generale apprezzano molto lo sforzo produttivo, non si può parlare di “grande cinema”, ma neanche si dovrebbe per forza, è un film che scorre ed emozione, non fa male a nessuno e lascia uno spettacolo abbastanza dignitoso. Al pubblico e all’Academy questi elementi bastano ed avanzano per premiare il film.
Dopo il trionfo del film su Edith Piaf, Marion Cotillard mette in fila, uno dietro l’altro, una serie di travolgenti successi: viene chiamata da Michael Mann per Nemico Pubblico (2009), da Nolan per Inception (2010) e Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno (2012), da Jacques Audiard per Un sapore di ruggine ed ossa (2012) ed entra di diritto nella rosa delle attrici più amate ad Hollywood.
Nel film di Mann il suo ruolo è davvero quasi invisibile, perché nel cinema di Mann i personaggi femminili non hanno, solitamente, una grande rilevanza, cosi il personaggio della “pupa del Boss” rimane lì a guardare i maschi che si fanno la guerra tra di loro. La regia di Mann è puro fuoco di un estetica estatica dello sfasamento spaziale del digitale, attraverso i campi lunghi, la profondità di campo, i colori accesi, il buio penetrante inquadrato in hd, insomma una vera festa per gli occhi.
 
Marion Cotillard nel finale, essendo la donna del bandito, viene arrestata, interrogata e malmenata per farle confessare il luogo suo covo. L’attrice riesce a recitare con grande maestria anche questo frammento di immoralità dettato dai tempi e dal contesto. Il film finisce con la battuta di Stephen Lang “bye bye blackbird”. E’ il marchio che Mann regala all’attrice per questa performance classicista e piuttosto scarna.
Dove l’attrice francese dà il meglio di sé è nei due film con Christopher Nolan. In Inception Marion Cotillard interpreta Mal, la defunta moglie di Cobb, che vive come proiezione del cinema mentale nolaniano, nella testa di Cobb, imprigionando l’intera struttura di questo mental-cinema nelle spire della sua follia post-apocalittica. Questo si può dire che fin’ora sia il miglior personaggio mai interpretato da Marion Cotillard, la cui presenza sinuosa tende ad acuire il senso di vertigine del film, facendone un personaggio-mantide. Non ci si potrà mai dimenticare del binomio Mal/Cotillard.
Nel film di Woody Allen, Marion Cotillard interpreta il personaggio dell’amante di Pablo Picasso, in un film delizioso ma risaputo, dove l’attrice francese diviene mero pretesto per inanellare l’ennesima figurina del suo teatro di vecchie glorie. In questo film in-songo Woody Allen immagina un luogo mentale in cui tutti i grandi artisti dell’epoca d’oro, da Hemingway a Picasso fino a Dalì tornino in vita, in un revival dei bei vecchi tempi, in cui tutto acquista senso, come in un battito di ciglia, e Marion Cotillard appare come pura emanazione di un inconscio alleniano neanche tanto velato da una malinconia che serpeggia, parlando di un tempo che fugge via irrefrenabile ed irresistibile.
Nel terzo Batman di Nolan l’attrice francese è una dottoressa con cui l’eroe mascherato vive una storia d’amore, rivelandosi poi il suo più acerrimo nemico. Nell’ultimo capitolo della saga del Cavaliere Oscuro Marion Cotillard non ha problemi di adattamento al gioco meta-strutturale del cinema ormai dinamitardo e massimalista del Batman di Nolan, l’attrice francese simula sempre un distacco che riverbera la passione e l’inimicizia di un personaggio che cela segreti impronunciabili, rivelandosi al fine, più doppia di Due facce. La sua pantomima è fatta apposta per deragliare il campo narrativo, per creare sconquasso e raggiungere l’obiettivo di una ostentata critica ad una società corrotta ed ingiusta.
Marion Cotillard è un attrice che ha raggiunto un enorme successo anche in virtù del suo fascino, la sua eleganza e la sua figura sirena discreta e sempre avvolta da un leggero mistero latente, che regala al suo sguardo un’intensità che la avvicina a Michelle Pfeiffer.

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).