PUNTEGGIO NON DISPONIBILE

Volevo verificare se era possibile attribuire uno sguardo morale a Michael Haneke e dopo aver visionato due dei suoi film iniziali, Il settimo continente (1989) e Benny’s Video (1992), posso dire che Haneke è un cineasta che predilige uno sguardo vitreo e fondamentalmente inanimato, come una lastra di ghiaccio senza forma. lo sguardo distaccato del regista tedesco documenta la morte senza una prospettiva chiara, adducendo ai suoi film una morale nascosta che preclude ogni valutazione post-visione. Il suo cinema è talmente controllato da abolire il punto di vista, scarnificando l’immagine, ripetendo un flusso di coscienza che deriva dalla mancanza di una prassi etica.

 

Tra Il settimo continente e Benny’s Video sussiste lo stesso legame che ci può essere tra due esperimenti di alta precisione chirurgia, una prassi collidente ad un modello di non definizione dei personaggi, che attua lo scarto definitivo tra il reale e la fiction. Haneke immortala il proprio capolavoro di morte sibillina senza predisporre mai ad una qualsivoglia significanza, indirizzata al disvelamento del corpo nascosto della materia-cinema. Il regista tedesco occlude implacabilmente lo sguardo, soffocandolo come in Amour (2012), limitandosi a perlustrare un’anima contorta che o non significa nulla o e ferma al proprio compatimento nell’immanenza della propria fine.

Ne Il settimo continente una famiglia ricca e felice decide inspiegabilmente di suicidarsi. In Benny’s Video un ragazzino con il “buio nella mente”, appassionato di video che riprendono animali uccisi, uccide una coetanea appena conosciuta. Storie dove la criminalità si fonde con l’anima turbata di una borghesia ricca, agiata e probabilmente vuota. E’ questo quello che Haneke intende dire? Che nella ricca borghesia la genesi del male prende strada più facilmente?

Il regista austriaco afferma questo attraverso una totale anestesia del cinema, occludendo ogni varco all’occhio che è, così, costretto a vedere il dolore, non dando mai la possibilità di una catarsi. Haneke ha sempre girato con questa estetica. La morale deve subire il contraccolpo di una visione intollerabile e la fiction non deve mai essere tale, ma sempre appartenere al regno del dubbio cristallino e della concertazione tragica.

Questo tipo di cinema non va affatto per il sottile, protende sempre una impaginazione dell’inquadratura che assomiglia sempre di più ad una requisitoria totalmente giudicante, come se Haneke volesse ergersi a giudice supremo delle umane disgrazie. E’ un punto di vista assai delicato, anche perché un’impressione così seriosa e intransigente, così implacabile dell’atto stesso del cinema porta il regista tedesco ad una contemplazione dell’assurdo che lo pone più all’altezza di un filosofo esistenzialista che non di un creatore di immagini pure ed infinite.
Il cinema di Haneke non è né puro né infinito ed è questo il suo problema: volare talmente in alto da rischiare di perdere l’equilibrio, soprattutto quando i suoi film terminano sempre con una condanna di personaggi mai rispettati, sempre rinchiusi all’interno di gabbie metalliche, sempre sul procinto di esplodere, perché frustrati dall’agonia di un’inquadratura categoricamente ammonitrice.
I critici lo adorano soprattutto per questo. Chi scrive preferisce una geometria più plastica ed una morale biunivoca, piuttosto che unidirezionale, come quella del regista tedesco.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).