Re della terra selvaggia

La vita di Hushpuppy, una bambina che vive con suo padre, malato di cuore, nella comunità Bayou, nelle terre selvagge del profondo sud della Louisiana.
    Diretto da: Benh Zeitlin
    Genere: drammatico
    Durata: 93'
    Con: Quvenzhané Wallis, Dwight Henry
    Paese: USA
    Anno: 2012
7.3

Cosa deve aver attirato l’attenzione dell’Academy, alla visione di Re della terra selvaggia? Si tratta, in fin dei conti, di una vera e propria comunione di pensiero, un’empatia che nasce da lontano. Benh Zeitlin accenna ad una conversione dell’immaginario americano predisposto all’action sotto forma di esplosioni di violenza già pronte ad uso e consumo dello spettatore. Zeitlin sorprende, rompe le griglie di rappresentazione, annulla le tipologie stilistiche, inventa un grido animato e convulso, un cinema-salvifico, quello che rientra nella categoria della filmicità localizzata in un punto dispersivo dello sguardo.

Il Re della terra selvaggia appartiene a quella categoria di film anodini che accettano e scompongono le regole che determinano lo stupore spettatoriale, partorendo un’elegia senza fine, conducendo lo sguardo verso il mutamento prospettico. Quando il cinema non ha nulla dimostrare inventa un non-luogo che si spiralizza, con il tentativo di autenticazione di un modello controverso e certamente non autoconclusivo di rinascita e di devozione, inteso come promulgazione di una sintesi rarefatta e inconscia. Questo è il film di Zeitlin, corrispondente ad un mutamento di visione, una sintesi controversa, un miracolo primigenio di cui l’immagine è filo conduttivo, nascendo da una pura idea di nemesi convessa alla tentazione del magnifico estetico.

C’è chi ha parlato di Malick riguardo allo stile di Zeitlin. Paragone frettoloso e fuori luogo. No, per adesso Zeitlin non ha padri, il suo sguardo assomiglia più ad un risveglio energico, una baldanza ubriaca di vita e di speranza. Questo è un film che promuove a tutti gli effetti un discorso sulla speranza e sulla fiducia nel domani, sul rispetto della morte come fatto definitivo ma non conclusivo, un film contro le insidie ideologiche della civiltà occidentale, non un film a favore dell’emarginazione sociale, ma piuttosto una considerazione di merito per un modello di vita più consono, più libero, alternativo alla modernità.

Se l’Academy ha dato fiducia ad un’opera così diversa, limitrofa, quasi che volesse ritornare ad un’idea di cinema non più masticabile e digeribile dal mercato-fast food, riconvertendo l’immaginario nel senso di un documentarismo dello stupore che non debba necessariamente avere scopo didattico o addirittura politico, se l’Academy ha dato fiducia ad un’opera così, significa che lo sguardo si sta finalmente reindirizzando, che non tutto è perduto, la dittatura del 3D, dei cine-comix, degli effetti speciali, del cinema miliardario non ha alcun potere contro un cinema così metamorfico, oscillante, totalmente libero di esprimere un primordiale furore.
Il Re della terra selvaggia è un’istantanea nello sguardo di una bambina, tanto più piccola, quanto più dotata di risonanza verso lo schermo che si riempie di un mondo intonso e variegato, ma mai domo.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).