Tropical Malady

Thailandia, oggi. Due ragazzi si piacciono e vagano per la foresta, fino a che uno dei due scompare misteriosamente.
    Diretto da: Apichatpong Weerasethakul
    Genere: grottesco
    Durata: 118'
    Con: Banlop Lomnoi, Sakda Kaewbuadee
    Paese: THA
    Anno: 2004
7.2

Alla base di questo stranissimo, inconsueto esperimento di ingegneria narrativa, c’è una storia gay, due ragazzi nella Thailandia di oggi si amano, si cercano, si trovano, si cacciano e poi spariscono inghiottiti da una giungla acquosa e vermiglia.
Weerasethakul sottolinea ogni volta la sua predisposizione per gli accenni e gli sguardi violati ma casti, Tropical Malady è lì a confermare la struttura elicoidale dei suoi film-composizioni.
Tropical Malady è un’opera in incognito, che stordisce ed esaspera la forma su un binomio attrattivo-repulsivo su cui domina l’interpretazione del fatto oggettivo sulla performance.
Il suo cinema risponde ad una esigenza di chiarificazione postuma alla destrutturazione cognitiva del cinema autoriale.

La lezione antoniniana sul cinema dell’incomunicabilità è stata digerita a pieno e ora viene interpretata da Weerasethakul come soluzione formale la cui esegesi serve solo da base per un discorso sulla metamorfosi dello sguardo. Non più chi guarda cosa, ma chi guarda chi.
E’ la nuova impostazione dettata nell’epoca del metacinema: lo sguardo in Tropical Malady è rivolto allo spettatore, la metempsicosi  è totale.
Weerasethakul intende monitorare e mutare la traiettoria dello sguardo. Da fisso e immutabile, ad attivo e finalmente impaurito.

Quindi, a differenza di Long Boonmee Raluek chatTropical Malady non si autosterilizza come operazione stilizzata e amorfa, come rito continuamente riprogrammato di eventi e luoghi sempre uguali e sempre fini a se stessi, non diventa mai excursus turistico sui luoghi magici della misteriosa Thailandia, ma si prefissa sempre di utilizzare lo sguardo paludoso ed infimo per raccontare una storia di perdita, di dolore e di annunciazione di un nuovo verbo cinematico, il verbo del terrore estatico.
Tropical Malady intende riaffermare, ce ne fosse ancora bisogno, la necessità di una distorsione temporale, di un fiume negativo di immagini che squadernino ogni punto di vista, lasciando filtrare dalle spire del buio una luce che si fa sempre visione d’oltretomba e grumo intensissimo di penetranti visioni magmatiche.

Si esce quantomeno increduli dalla visione di un cinema così denso elaborato, fatto di esequie trionfali, quasi come se la lentezza fosse una macchia che il tempo-cinema imprime agli occhi perché il tempo stesso della visione si fermi nella retina. E’ l’occhio a contenere la forma-cinema di Tropical Malady  l’occhio come sensore che si abbandona al vuoto cosmico di una foresta magica che amplia la prospettiva e consegna il terrore agli occhi del soldato che, davanti alla tigre, non può che rimanerne abbagliato.
La tigre lo guarda e si ferma sulla sua figura, in attimi di sospensione che paiono infiniti.
Weerasethakul conosce i segreti di un cinema illusorio, nella perenne condensazione di un dubbio che non troverà mai pace.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).