La Vita di Adele

Adele è una giovane studentessa del liceo. Un giorno incontra Emma, una ragazza lesbica più grande di lei. Inizia un amore travolgente e senza compromessi. Ma quando Emma scopre che Adele la tradisce con un altro uomo, la relazione inizia ad incrinarsi.
    Diretto da: Abdellatif Kechiche
    Genere: drammatico
    Durata: 179'
    Con: Adele Exarchopoulos, Lea Seydoux
    Paese: FRA, BEL
    Anno: 2013
8.1

E’ il Kechiche che spiazza, sorprende. Ma con assoluta semplicità. La Vita di Adele (primo film dichiaratamente a tematica lesbica a vincere il primo premio nel Festival più importante del mondo) si chiude volutamente con una chiosa improvvisa, che annulla la catarsi e prende il volo per un’altra dimensione, con un senso di attesa quotidiano che fa pensare all’insicurezza del momento.
Di certo il regista tunisino ha voluto mettere in scena il complesso anfiteatro della vita, senza alcun compromesso estetico, raccontando quello che succede in una storia d’amore radicale, che sa di rivoluzione dei costumi.

Ne La Vita di Adele ci sono alcuni quadri di riferimento: La Classe (2008) di Laurent Cantet, l’eros furibondo di Lussuria (2007) di Ang Lee, ma la cifra del mélo viscerale istallato nel circuito mutevole del contesto sociale è tipico di Kechiche, di opere quali La schivata (2003) e Cous Cous (2007).
Venere Nera (2010) era un film pesante, politico, di denuncia del colonialismo occidentale, dove lo sguardo dello spettatore veniva fatto coincidere con quello sadico, senza rispetto, della società schiavista, imperialista europea. Era un film impossibile da digerire. Ma un film di denuncia non deve per forza essere bello, deve accusare un principio di moralità dello sguardo vilipeso anche accettando lo scarto estetico di un realismo crudo e senza speranza.
La Vita di Adele viaggia dentro tutti questi film per raccontare della semplicità di una delle tante storie d’amore possibili tra donne eterosessuali, per affermare il principio della retroattività della vita, della non fossilizzazione di uomini e donne su etichette sociali preconfezionate, dello stridore dei sentimenti e della forza turgida della carne.
Quello di Kechiche è un mélo dove la carne esplode per forza di elementi estetici irrinunciabili. Si fa pornografia nelle scene d’amore? La camera si addensa sui corpi quasi liquidamente, ponendo uno sguardo mai domo, raffigurando il sentire sfinito di corpi mai sazi.
E’ un cinema difficile da vedere, perché occlude la morale di uno spettatore ancora non del tutto abituato dai fatti della vita messi in scena in maniera così diretta.
Decenni fa sarebbe stato impossibile proporre al pubblico dosi di realismo così eccedenti lo sguardo, così spregiudicate e libere. La censura sarebbe scattata implacabile. Ma i costumi erano diversi.
Oggi, per rendere credibile lo smarrimento finale di Adele dopo l’abbandono di Emma che le fa capire che non la ama più, Kechiche ha dovuto interpellare una soglia del realismo autoconclusivo.
Se si guarda bene non c’è un accanimento della società su questa coppia di ragazze che cercano in continuazione la propria identità nel mondo, non vi è omofobia. Kechiche la mostra solo all’inizio, nell’unico contesto possibile in cui può aver senso un sentimento di rifiuto tanto categorico e tronfio: a scuola, tra compagne di liceo. Per il resto, Kechiche si limita a mostrare le differenze tra una famiglia più aperta, come quella di Emma, e una più chiusa e tradizionale, come quella di Adele.
Kechiche non mostra episodi di intolleranza nei confronti delle coppie eterosessuali. Quello che gli interessa è esplorare la soglia dell’eros mutevole, la linea oltre la quale Adele non rimane adolescente senza rimorsi, ma donna che ha rimarcato la sua esperienza nel mondo con lacrime e orgoglio.
La sua storia con Adele rappresenta l’anello di congiunzione tra l’appagamento di un eros senza compromessi e la sconfitta maturata per mancanza di un fattore x che imparerà a conoscere solo con il tempo.
Ma forse il fattore che più sorprende dell’operazione di “realismo magico” di Kechiche è l’economia narrativa nell’uso delle tre ore di proiezione. Giunti alla fine di un film corposo, che si delinea come un poema da cui scoprire ogni volta un sapore diverso, si ha la sensazione di aver assistito a due ore di proiezione.
Il film vola via senza accorgersene, merito di uno script che si accorda alla perfezione ad un’idea narrativa che si sviluppa senza fronzoli: questo risultato può riuscire solo con un adeguato lavoro con gli attori, con un utilizzo congiunto della scena, come si poteva vedere anche in Cous Cous, ma stavolta Kechiche sembra essere andato oltre e aver azzeccato una specie di quadratura narrativa di un cerchio estetico che si delinea attraverso elementi di pudore sovraccarico che tendono a non risolversi mai.
Inoltre, il titolo originale La Vie d’Adele Chapitres 1 et 2. Ma nel film i capitoli 1 e 2 non vengono mai segnalati. Non c’è differenza tra la fase “1” e la fase “2”, come succede per esempio nei film di Lars Von Trier come Le onde del destino o Dogville. Kechiche ha concepito il film come un flusso ininterrotto, ha quindi considerato inutile la distinzione tra capitolo 1 e capitolo 2. Il regista tunisino ha probabilmente considerato questa scelta per evitare un didascalismo che avrebbe potuto tradire la derivazione teatrale dell’intera opera. Non è un dettaglio da poco.
Infine, il fatto che La Vita di Adele sia tratto da una graphic novel, è del tutto casuale. Come in A History of Violence di Cronenberg, del testo originale a fumetti, da cui John Olson aveva tratto lo script, non si vedeva la minima traccia. Anche questo è un dettaglio rivelatore della caratura pressoché unica di un mélo torrenziale e tuttavia sgombro da qualsiasi tipo di retorica, barocchismo o surplus stilistico.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).