Il Grande Gatsby

Nel 1922 Nick Carraway si trasferisce a Long Island, dove conosce Gatsby, un milionario il cui passato è sconosciuto. Un giorno lo fa incontrare con Daisy, sua cugina, e la loro vita cambierà per sempre.
    Diretto da: Baz Luhrmann
    Genere: drammatico
    Durata: 142'
    Con: Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan
    Paese: AUSTR, USA
    Anno: 2013
5.9

Il pronostico della vigilia sembra confermato, almeno dopo la prima visione. Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann è la montagna (gigantesca) che partorisce il topolino.

Un’opera magniloquente che parte abbastanza bene, con la consueta verve luhrmanniana che si era vista  su Romeo+Juliet e Moulin Rouge!, una mdp che si muove istericamente, a voler affermare il ruolo artificioso del cinema. Il cinema di Luhrmann è per i primi 30 minuti intonso, carico, irrefrenabile, senza controllo. E funziona, in quanto l’assunto postmoderno di unire classico e moderno produce un via vai mai visto di suoni, luci, colori impressionante. E lo spettatore è un po’ rincuorato, memore di un polpettone indigeribile quale era Australia.
Tobey Maguire, che alla vigilia non sembrava la scelta migliore di cast si rivela piuttosto azzeccato.
L’entrata in scena di Leonardo Di Caprio è in grande stile, ma tutto il film è in grandissimo stile. Luhrmann non contiene mai la sua energia spettacolare, narrativa e mette in scena un caleidoscopio in movimento che incanta l’occhio per celare la materia vacua del suo contenuto che, come si sa, non è altissima.
Baz Luhrmann prende dei classici, da Shakespeare, al locale notturno parigino, fino alla schiavitù e alla Guerra in Australia, per poi rimodellarli attraverso la sua visione sempre magnetica e rimbombante.
E riesce a fare cinema bellissimo, turgido, fuori da ogni schema.
Ma negli ultimi due film non tiene conto di un grosso problema narrativo: la credibilità delle situazioni e dei personaggi.
Infatti la secondo parte de Il Grande Gatsby praticamente non si regge, semplicemente, come spettatore ho iniziato a boccheggiare, a girarmi e rigirarmi nella poltroncina. Perché? Perché se il protagonista Di Caprio deve impazzire d’amore per Daisy, che è interpretata da un’attrice dal fascino pari a zero come Carey Mulligan, il film intero crolla, non tiene.
Tutta la seconda parte è una disputa colossale e tirata per i capelli tra Gatsby e Tom Buchanan (interpretato dal ferino Joel Edgerton, una specie di fotocopia venuta male di Ridge Forrester). Carey Mulligan viene contesa come una perla rara, e l’attrice inglese una perla rara non è.
Praticamente tutto il film gira intorno alla contesa da parte di due uomini per una donna neanche tanto affascinante, se poi ci mettiamo lo stile sovraccarico di Luhrmann, si assiste ad una sorta di Beautiful all’australiana, la narrazione di Luhrmann si tinge di crinoline, frasi da Baci Perugina, tende che vibrano  delle corde dell’amore straziato tra due amanti il cui amore è impossibile.
Ma a Luhrmann questo stile sembra piacere alla grande, il regista australiano gira e narra così, dopo aver provato l’esperienza del lavoro a 4 nella sceneggiatura di Australia, torna a scrivere lo script con Craig Pierce e, a dir la verità, mi sembrava la notizia più buona di questo nuovo film di Luhrmann.
Avevo pensato: adesso farà le cose meglio, penserà le scene in modo più organico.
Invece no. Anche Moulin Rouge! era fuori controllo e palesemente kitsch, una storia d’amore impossibile, mélo torrenziale, spudorato, ma con dei grandissimi attori nel meglio delle proprie capacità quali Nicole Kidman, Ewan McGregor, Jim Broadment, John Leguizamo, Richard Roxburgh, Luhrmann diciamo che giocava in casa, aveva un lavoro piuttosto facile. Tutto gli riusciva alla grande, anche in quel film falsissimo e magnifico.
Il Grande Gatsby impone il totale diniego sulla filmografia di Luhrmann. Questo film è come una frustata. Basta vedere la recitazione devastante di Tobey Maguire per tutta la seconda parte, Isla Fisher che vola in aria investita dall’auto con l’orrendo ralenti, del tutto di riporto, i primi piani di Carey Mulligan che sussurra parole d’amore a Di Caprio, nel più improbabile e finto dei mélo, oppure la scena più improbabile di tutto il film, quella in cui l’assassino entra nella dimora di Gatsby, in cui non c’è un servizio di sicurezza (!) e gli spara indisturbato.
Luhrmann forse ha tenuto a battesimo la fine del suo cinema, ed è un peccato, getta a mare un’ottima occasione di rimettersi in piedi dopo il kolossal già implausibile di Australia, ma con Il Grande Gatsby infligge allo spettatore un Beautiful che non si meritava.
Forse il regista australiano non vuole capire che certe storie e stili visivi si potevano mattere in scena negli anni ’90, ma adesso, con la ricambio dei generi, il classicismo di ritorno venato da impalcature moderniste non va più bene. Pensare al passato con occhi moderni non si può più fare.
Ma la cosa più grave è il non avere più una fulgida Kidman come Star. Perché il cuore pulsante di Moulin Rouge! era lei.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).