Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante

Albert gestisce un ristorante, è un uomo violento e autoritario, soprattutto con la moglie Georgina, che ha un'amante, l'intellettuale Michael. Albert, una volta scoperta la relazione, ucciderà l'uomo. La vendetta di Georgina sarà spietata.
    Diretto da: Peter Greenaway
    Genere: drammatico/grottesco
    Durata: 124'
    Con: Michael Gambon, Helen Mirren
    Paese: UK, FRA
    Anno: 1989
7.9

Il lavoro compiuto da Peter Greenaway con un testo di cinema puro come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) pone con tutta evidenza il problema della irreversibilità del cinema. In particolare il cinema di Greenaway diventa irreversibilmente politico, pur sembrando piuttosto aristocratico, proprio per una certo gusto verso una misoginia molto snob e assolutamente non decorativa o retrograda, ma bensì conscia di una rivoluzione in atto, la rivoluzione che pone al centro la drastica eliminazione di ogni compromesso scenico davanti ad un pubblico che si aspetti un gioco delle parti quanto più possibile diacronico e selvaggio. Greenaway punta il dito sulle perversioni di un universo sociale ricco e sbalestrato dal punto di vista morale, lo fa con una ricchezza visiva che quasi nausea il pubblico, facendo perdurare uno stato di sadismo tattile e di catarsi sempre rinviata, umiliando ogni personaggio, mitizzando la morte, perseguendo un’idea di trionfalismo della costruzione granitica e massimalista, che gronda un’estetica superbamente reazionaria, la quale nel finale ottiene la sua meritata sconfitta.

Molti critici non prendono solitamente i film di Greenway per quello che sono: superbe commedie scritte in punta di penna, con un’arguzia fuori dal comune, con un senso del tragico, dell’assurdo, dell’inventiva, sconvolgenti e, sempre pertinenti al gioco-cinema. Greenaway è il cineasta-pittore politico-poliedrico che vede il mondo al contrario, è l’artista del muto discernimento tra ragione e pulsioni terrene; il cuore è un organo di solito spento nei personaggi dei suoi film, il cineasta inglese conserva una visione del mondo profondamente nichilista e priva di qualsiasi consolazione o di lieto fine. Ma lo fa con un garbo, con un’ironia, persino con una leggerezza che sa di politica di visione a 360°. Si tratta di un artista incontrollabile che ha firmato opere non comuni ma, chi scrive lo può affermare con totale fiducia, niente affatto invecchiate. Affatto. Con Greenwaway si è in una botte di ferro riguardo all’invecchiamento dei film. L’autore inglese è troppo fuori fuoco per appartenere ad una categoria precisa, il suo è un cinema estremamente leggero, e non si creda a chi dice che i suoi film siano molto pesanti. Non è vero, la sua visione del mondo può essere non condivisibile, ma la sua arte scenica, la capacità di direzione degli attori è sempre puntuale e coerente all’estetica della sorpresa e, a volte, del raccapriccio.

Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante è la sua opera più scopertamente sfrontata e decisiva nel contesto di un’abiezione e di una dicotomia politica tra pensiero intellettuale e potere fascistoide della proprietà: il ladro, una volta scoperto l’atto adultero della moglie con l’amante, uccide l’amante facendogli ingoiare le pagine della Rivoluzione Francese. Il punto di vista di Greenaway è netto e non riducendosi mai allo sberleffo incantatorio, ma si traduce sempre nella messa a fuoco del problema: la visione si martoria nelle viscere di una società malsana e asservita al Dio-denaro, il potente di turno fa di tutto per ottenere la viscida gloria, con le mani insanguinate che ridono di una morte già avvenuta, la propria.

Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante si compone secondo l’estetica dominante del quadro bruegheliano ricolmo di elementi e di personaggi, le carrellate morbide conducono dalla violenza al piacere con il gusto retroattivo di una severa condanna. A Greenaway interessa forse di più una certa teatralità di tocco, un certo nume tutelare della crudeltà, viziata da un contesto volgare e ricco, suadente e illuminato da una necessità luciferina di imporre una visione del mondo che rubi il verbo alla carne, facendosi pura visione di morte, squisita e scellerata ricostruzione di una tragedia biblica che si fonde con la resurrezione di un pensiero assetato da un Giudizio Universale che tarda ad arrivare. Ma che alla fine conquista la platea e induce a ripensare l’intera vicenda come un romanzo classico cui, al termine, il nodo con cui la vicenda era iniziata si scioglie nell’applauso, consacrando ogni elemento alla gloria di una memoria che ha ottenuto il compromesso della visione, sconvolgere bramando la misura della perfezione.