La memoria dell'acqua

In Cile è nascosto un “tesoro” naturale di inestimabile valore: una costa di 2670 miglia e un arcipelago immenso, uno dei più grandi al mondo. L’oceano, con i suoi misteriosi “bottoni” situati nel fondale marino, contiene le memorie dei popoli che hanno abitato nel tempo quelle terre costellate da montagne, vulcani e ghiacciai.
    Diretto da: Patricio Guzmàn
    Genere: documentario
    Durata: 82
    Paese: FRA, SPA
    Anno: 2015
8.3

Una traiettoria dello sguardo, un flusso di pensieri, un profluvio d’immagini: è tutto questo, La memoria dell’acqua del leggendario filmmaker cileno Patricio Guzmàn, ma soprattutto uno sgorgare di metafore, suggestioni e reminiscenze storiche che sbalordiscono per coesione ed arditezza. Da un lato l’opera dell’acclamato regista di Nostalgia For the Light, con affascinante circolarità, unisce la foce del finale alla sorgente del prologo, nell’alveo di un significato comune; dall’altro, però, il percorso documentaristico si svolge con una serie di cambi di rotta e di ritorni, come su di un corso d’acqua ricco di anse – e, talora, di ansie.

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Il Cile è un paese esposto alle acque, con una delle linee costiere più lunghe del mondo. Guzmàn apre il film con riprese mozzafiato dei famosi ghiacciai della Patagonia, sculture di ghiaccio che sopravvivono da decine di migliaia d’anni in un ciclo costante di distruzione e rigenerazione. A fronte di questa ricognizione naturalistica, che nel parlare dell’acqua sa già tuffarsi spericolatamente in un collegamento con cosmo e stelle, il racconto vira verso la tragica storia della nazione: dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti delle tribù fiorite lungo le vie acquatiche del Cile per secoli, decimate dalla colonizzazione europea, si passa al più recente genocidio sofferto dal popolo cileno durante la dittatura di Pinochet, allorché migliaia di prigionieri politici furono assassinati o fatti scomparire, spesso nei flutti dell’oceano.

Il pregio de La memoria dell’acqua consiste nella fluidità con cui il documentario ondeggia di tono: dal lirico al giornalistico, dal pittoresco allo storico. Utilizzando gli ultimi ritrovati dell’alta definizione, Guzmàn affabula lo spettatore con lo spettacolo delle gocce d’acqua in slow motion, come microcosmi cedevoli e conclusi, ma sa anche ricostruire, non senza asprezza, il supplizio di una cilena gettata in acqua ai tempi di Pinochet. Il regista riesce a connettere visione storica e memoria della tragedia più per epifanie di un montaggio ispirato, che per astruse concettualizzazioni. Il body paint, straordinario, di misconosciute tribù di nativi è fatto di linee e punti che poco oltre confluiscono nelle nebulose e nei quasar di galassie riprese dall’avanzatissimo osservatorio astronomico cileno. Ma il salto non è meramente, sterilmente “visivo”: a quelle popolazioni si riconosce implicitamente una connessione più profonda con le forze della natura di quella instaurata dai totem della tecnologia.

E in tema tecnico: per un’opera di tale ineccepibilità d’esecuzione – anche nel percettivo ed attento montaggio sonoro – aver scansato l’effetto wallpaper è merito significativo. Questo, probabilmente, perché non s’avverte compiacimento del paesaggio d’immagini, piuttosto la sensibilità di chi sa popolarlo di storie umane. A partire da quella del titolo originale ed internazionale (El Botòn de Nàcar, Il bottone di perla), che fa riferimento alla vicenda di Jeremy Button, indigeno prelevato dai coloni inglesi, trapiantato di forza nella civile Inghilterra, poi fatto tornare, mezzo gentleman, nella terra d’origine, ormai esiliato nell’identità: un viaggio dall’età della pietra alla rivoluzione industriale, che sembra incrudire la percezione dello iato tra natura e cultura e non mancherà di trovare, sempre per fotogrammi, inattese connessioni con la storia a venire del Cile.

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Se il valore intrinseco dell’operazione di Patricio Guzmàn si manifesta nel potere evocativo dei flussi tematici e della loro seducente giustapposizione, più in generale La memoria dell’acqua si afferma nel panorama cinematografico come dimostrazione esemplare dell’arte della non-fiction, nonché di una tendenza, in diffusione a macchia d’olio nel documentario contemporaneo, a raccontare e ricostruire attraverso libere correnti di senso.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".