Tutti vogliono qualcosa

Nel 1980 Jake è una matricola della squadra di baseball e sta per iniziare l’università in Texas. Mancano tre giorni all’inizio delle lezioni e il fine settimana è l’ideale per fare conoscenza con i nuovi compagni di squadra. Seguiranno feste goliardiche. Ma Jake avrà anche il tempo per fare conoscenza di Beverly, studentessa di livello sociale più elevato.
    Diretto da: Richard Linklater
    Genere: commedia
    Durata: 117
    Con: Blake Jenner, Juston Street
    Paese: USA
    Anno: 2016
8.1

La fortuna di Richard Linklater continua sul piano produttivo ma non sul piano estetico. Per i pochi (tra cui chi scrive) che non erano rimasti meravigliati dal per certi versi inatteso exploit di Boyhood, Tutti vogliono qualcosa assomiglia ad una boutade giovanilista con addosso il peso di trasformarsi in apologo esistenziale. Ma le carte in regola per un successo duraturo nel tempo c’erano tutte: si inizia con l’entrata in un mondo narrativo perfettamente coerente e dinamico, dove tutti gli elementi concorrono alla costruzione di un mosaico riconoscibile ed autonomo, ci si illude che il regista non voglia farsi bello con apologhi esistenziali. Dopo un’ora e mezzo di grande dimostrazione di autorevolezza scenica, narrativa, persino drammatica, la storia prende si concentra sull’aspetto sentimentale e l’ansia di stupire prende il sopravvento sulla dialettica furibonda.

Everybody Wants Some

Linklater prende il microcosmo narrativo di un collage americano del 1980, nella fattispecie una squadra di baseball. Il machismo cripto-gay avanza e la volgarità estemporanea e triviale del testosterone prende corpo come un siluro in faccia. Ma il senso di leggerezza rimane intatto. E la struttura rimane intatta da illusioni di propagandismo sociologico. Un buon gioco estetico da parte di Linklater. Si potrebbero trovare affinità con altri registi come John Landis o Il grande freddo di Kasdan, oppure Booghie Nights e Inherent Vice di Anderson, ma la memoria viene tenuta a freno dalla semplicità paradossale che Linklater imprime alla faccenda. I personaggi funzionano da magnete, le situazioni si susseguono come diapason elettrici, il triviale si stempera spesso nell’assurdo o nel senso di grottesco lasciato appena sfumato.

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Tutto questo sarebbe perfetto se Linklater avesse avuto un minimo senso della sintesi (ma chi ce l’ha oggi a Hollywood? L’unico che può permettersi di prendersi il suo tempo senza correre il rischio di farlo sentire oggi forse è P. T. Anderson con Inherent Vice) e nel finale si assiste alla battuta d’arresto, quasi inattesa, vista l’ottima prima parte dell’operazione. Negli ultimi 20 minuti Linklater prende di petto la storia d’amore tra la matricola più sensibile e la ragazza altolocata e impegnata culturalmente. E’ un buco nell’acqua, dopo aver messo in piedi un’elogio dell’anarchia più sfrenata (che poteva essere ben più assurdo e diventare un nuovo Animal House). Linklater si adagia sulla liaison, come per dimostrare che non tutti giocatori di baseball sono ragazzini con un quoziente intellettivo al minimo e del tutto privi di cuore, completando l’operazione moralizzatrice chiosando sulla lavagna dell’aula di lezione con la scritta “le frontiere sono dove le troviamo”. A Linklater la mania da filosofo esistenzialista deve piacere molto, il punto è che la applica ai contesti meno adatti. Se il regista avrà la forza di scrollarsi di dosso questa pesante andatura filosofeggiante forse riuscirà a diventare un buon regista di commedie dell’assurdo senza la necessità di dover dare spiegazioni sulla vita. Di strada ne ha fatta, può farne ancora, con o senza il consenso di Hollywood.

A proposito dell'autore

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Classe 1981, co-fondatore di CineRunner, ha iniziato come blogger nel 2009, ha collaborato con Sentieri Selvaggi. I suoi autori feticcio sono Roman Polanski e Aleksandr Sokurov. Due cult: Moulin Rouge (2001) e Scarpette Rosse (1948).