Le regole dell'attrazione

La vicenda ruota attorno a quattro studenti americani del college: Lauren, Victor, Sean, Paul, al loro desiderio sfrenato di trasgressione, in un gioco di relazioni ingarbugliate dove tutti tradiscono tutti.
    Diretto da: Roger Avary
    Genere: commedia
    Durata: 110'
    Con: James Van Der Beek, Ian Somerhalder
    Paese: USA, GER
    Anno: 2002
6.7

A distanza di dieci anni dalla sua uscita, Le Regole dell’Attrazione (The Rules of Attraction, 2002) non ha perso un’oncia della sua grandezza.
Un film che riesce a restituire in modo quasi miracoloso il sarcasmo e il grottesco del mondo di Bret Easton Ellis (il libro è della fine degli anni Ottanta, quindi opera di uno scrittore poco più che ventenne e coetaneo dei protagonisti), ma possiede anche una padronanza sintattica e stilistica da sbalordire, riuscendo ad attraversare i generi con disinvoltura, commuovendo e divertendo in pari misura.

Viene voglia di lasciarsi andare all’enumerazione di momenti straordinari e che strappano l’applauso (come non citare il balletto sulle note di Faith di George Michael? in esaltante montaggio alternato con le madri che s’ingozzano di pillole), ma anche di lodare il rigore con cui  Roger Avary utilizza spavaldamente tecniche quali narrazione a ritroso, split screen e freeze frame per mimare cinematograficamente le peculiarità del romanzo.
Le Regole dell’Attrazione sarebbe persino potuto diventare un film “battistrada”, un modello per la commedia americana “giovanilista”, e i suoi attori avrebbero forse potuto acquisire lo status di vere stelle (probabilmente l’unica che ha conquistato una notorietà planetaria reale è Jessica Biel, con qualche distinguo essendo favorita in quanto compagna di Justin Timberlake). Sarebbe stato possibile se il coté tarantiniano (Avary è pur sempre il cosceneggiatore di Pulp Fiction) avesse debordato, come nella scena a casa dello spacciatore.
Ma la qualità più rilevante di The Rules of Attraction – che lo rende per fortuna una sorta di hapax dificilmente imitabile – è nel non legarsi per forza ad un registro di comicità, svariando di continuo tra soluzioni stilistiche raffinate, slapstick e attimi struggenti: quando la ragazza della mensa innamorata di Sean, al quale lascia lettere inequivocabili nell’armadietto, decide di togliersi la vita e nella colonna sonora irrompe Without You, è arduo non commuoversi e interrogarsi su giovani esistenze tanto fragili e disperati, confuse nella ricerca dell’amore e preda della disillusione almeno quanto delle droghe e del sesso promiscuo.
Ovviamente anche in questo caso arriva presto il contraltare comico, i maldestri tentativi di suicidio di Sean, non riamato dalla romantica Lauren, sono esilaranti e scoppiettanti come in un cartone animato. Una libertà di impaginazione che fa rimpiangere la lunga assenza dagli schermi di Avary, talento purissimo e poco compreso.
Rivedere questo film ha un indubbio effetto nostalgia anche per un altro motivo: se oggi Bret Easton Ellis è uno scrittore per molti versi “normalizzato” che sembra vivere della sua fama passata (vedere il mediocre The Canyons (2013) di Paul Schrader per rendersene conto), per chi lo ha letto e amato in tempo reale rimane difficile non pensare che Sean altri non è che il fratellino dello yuppie psicopatico Patrick Bateman, uno dei più potenti, controversi e terribili tra i personaggi letterari di tutti i tempi.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...