La Rosa purpurea del Cairo

Durante la Grande Depressione, negli anni '30, Cecilia lavora in una tavola calda, mantenendo il marito disoccupato. Nei giorni liberi va al cinema a rivedere il suo film preferito, La Rosa purpurea del Cairo. Un giorno, l'attore protagonista del film esce dallo schermo.
    Diretto da: Woody Allen
    Genere: commedia
    Durata: 82'
    Con: Mia Farrow, Jeff Daniels
    Paese: USA
    Anno: 1985
8.5

Con La Rosa purpurea del Cairo (1985) Woddy Allen, diversamente da quello che superficialmente appare, non vuole rendere un facile omaggio al cinema – nello specifico quello classico hollywoodiano – al suo potere affabulatorio e magico.

Attraverso l’espediente metafilmico dai risvolti a dir poco improbabili che daranno vita a gag e battute irresistibili, Allen mette in scena col paradosso e la farsa, la morte di ogni certezza: sia dentro che fuori lo schermo cinematografico non c’è soddisfazione, chi è dentro vorrebbe uscirne, chi è fuori vorrebbe ardentemente entrare, far parte di quel mondo, di quella realtà dorata, incontaminata dalle umane miserie. E il solito caustico umorismo non esorcizza il pessimismo di fondo.
L’idea del film nel film, del personaggio che esce dallo schermo ed entra nella vita vera, non fa altro che rendere chiara una cosa: la felicità, per Cecilia (Mia Farrow) e per tutti quanti, è fugace, illusoria, e per questo incredibilmente crudele.
Il poeta avventuriero, interpretato deliziosamente da Jeff Daniels, una volta uscito, priva di qualunque certezza gli spettatori presenti in sala (se nemmeno i film funzionano più come dovrebbero, dice una signora fuori dal cinema) e crea a dir poco scompiglio dentro e fuori lo schermo, e nel mondo del cinema, dando vita a battute davvero esilaranti, ma il fondo resta comunque amaro.
Allen ambienta il film negli anni della Grande Depressione, questi visti attraverso gli occhi ingenui di Cecilia (sua alter ego) che per fuggire dalla triste realtà – collettiva e personale – si rifugia quasi quotidianamente in una sala cinematografica.
Un po’ come in Midnight in Paris (2011), l’autore non fa un’elegia del tempo passato, non prende la facile scorciatoia nostalgica – gli anni trenta non sono meglio degli ottanta.
E per quanto sia innegabile l’amore (di Allen) per la settima arte – alla fine sembra far tornare il sorriso a Cecilia il ballo di Fred Astaire e Ginger Rogers in Cappello a cilindro (1935) – certamente non riesce a risollevare l’esistenza misera di lei, destinata a trovare un po’ di sollievo solamente nel buio di una sala cinematografica. Ma quando le luci si accendono, è tutta un’altra storia.

A proposito dell'autore

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Ha fatto e fa cose che con il cinema non c’entrano nulla, pur avendo conosciuto, toccato con mano, quel mondo, e forse potrebbe incontrarlo di nuovo, chi lo sa. Potrebbe dirvi alcuni dei suoi autori preferiti, ma non lo fa, perché non saprebbe quali scegliere, e se lo facesse, cambierebbe idea il giorno dopo. Insomma, non sa che dire se non che il cinema è la sua malattia, la sua ossessione, e in fondo la sua cura. Tanto basta.