A proposito di Davis

La storia del musicista folk Llewyn Davis, un giovane uomo errante, eternamente vagabondo e perennemente senza un soldo. E si chiede se un giorno qualcuno riuscirà a capire la sua musica.
    Diretto da: Joel e Ethan Coen
    Genere: drammatico
    Durata: 104'
    Con: Oscar Isaac, Carey Mulligan
    Paese: USA
    Anno: 2013
8.1

Dopo aver disorientato parte del loro zoccolo duro di sostenitori con il remake di True Grit (Il Grinta, 2010), i fratelli Coen sono tornati con questo film, A proposito di Davis, alle consuete storie di falliti e disadattati senza speranza. Ossia il terreno che conoscono meglio, sul quale possono giocare le poste più consuete, mettere a frutto un marchio di fabbrica sul quale riposano le loro fortune.

Non c’è quasi bisogno del film, né di vederlo scrutarlo interrogarlo annusarlo. C’è tutto quello che ci si aspetta, nella storia di Llewyn Davis. La sua inettitudine alla vita, la sua inadeguatezza alla famiglia, ai rapporti sentimentali, alla realizzazione professionale, alla fiducia degli amici e degli altri esseri umani. In fondo, è l’ennesima storia di un “uomo che non c’era”.
Dobbiamo intenderci bene: il film in sé è un magnifico lavoro di cesello, di ricostruzione di un’epoca (la New York degli anni Sessanta e il fermento musicale di cui quegli anni furono crogiolo), di scrittura del plot (benché il modello alto sia ancora una volta l’Odissea), di direzione degli attori, di fotografia, per non parlare dell’irresistibile colonna sonora curata da T Bone Burnett (con perle come “Hang Me, Oh Hang Me” cantata dallo stesso attore protagonista Oscar Isaac o come “Five Hundred Miles” affidata alle voci dei comprimari Justin Timberlake e Carey Mulligan).
Solo che, in mezzo a tanto splendore formale, i Coen si sono dimenticati di mettere in discussione la loro fin troppo consolidata visione del mondo. Nulla che abbia a che fare direttamente con la religione come in A Serious Man (2009), il film per molti versi più prossimo a questo, ma Llewyn Davis è l’ennesimo fallito del loro universo cinematografico e sembra che nella sua vita non ci sia altra dimensione o destinazione che il disastro esistenziale.
Persino il gatto degli amici non vuole aver nulla a che fare con lui, preferendo scappare di casa per vivere un’Odissea parallela, la quale ci fa forse trepidare più che per la sua (e il gatto si chiama Ulisse, casomai non avessimo capito che i Coen s’identificano ironicamente più con il suo sguardo che con quello del protagonista e degli altri personaggi).
Possiamo davvero appassionarci alle vicende di un uomo che ha perso in partenza e che non ha la minima possibilità di sfuggire al suo destino di reietto? Certo, tutto questo ha molto a che fare con una certa visione ebraica dell’esistenza, ma tant’è.
Forse quello che maggiormente compiace i molti entusiasti di Inside Llewyn Davis è ritrovare nel film l’essenza dei Coen, dai personaggi minori alle situazioni apertamente paradossali, con un compiacimento narcisistico che la fa da padrone ad ogni momento.
E se il cinema dei registi di Minneapolis è, come credo, un gigantesco bric-à-brac di pur sopraffina qualità, ho la spiacevole sensazione che quest’ultimo film non aggiunga nulla di determinante alla collezione.

Quando dopo tre decenni il film più significativo di questi cineasti rimane The Hudsucker Proxy (Mister Hula Hoop, 1994), capace di condensare simbolicamente e come meglio non si potrebbe il continuo ritorno del loro cinema allo stesso punto, è segno che siamo di fronte ad un’opera che è una ripetuta autoconsacrazione. E per trovare motivi di vero interesse bisogna rivolgersi ai lavori apparentemente di contorno (come True Grit, appunto) e meno programmatici.

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Ha una foto di famiglia: Lang è suo padre e Fassbinder sua madre. John Woo suo fratello maggiore. E poi c'è lo zio Billy Wilder. E Michael Mann che sovrintende, come divinità del focolare. E gli horror al posto dei giocattoli. Come sarebbe bello avere una famiglia così...